Se la violenza si esplica senza altro garante che se stessa, afferma Jean Luc Nancy, ciò si evidenzia nel rapporto indissolubile che essa ha con l’immagine: “La violenza si mette sempre in immagine, e l’immagine è ciò che, da sé, si porta davanti a sé e si autorizza da sé” (2002: 17). Più che del carattere mimetico dell’immagine, bisognerebbe interessarsi del suo valore intrinseco, della sua essenza violenta. L’immagine ha una natura mostrativa, ostensiva che è quella di esibire la presenza della cosa, di metterla in luce, porla in avanti. La violenza delle immagini artistiche, osserva l’autore, è però diversa da quella delle immagini-colpo perché l’arte tocca il reale, spietato e privo di fondo; il colpo,invece, è immediatamente il suo proprio fondo. L’estetizzazione diffusa, tipica della cultura dei media, incrementa la presenza di immagini-colpo connotate da scarsa riflessività e da una risoluzione superficiale del rappresentato. L’immagine della violenza è provocazione: sfida lo spettatore a guardare e, insieme, a tirarsi indietro. In una cultura fondata sui valori del mercato, sedurre con immagini violente significa tentare di lasciare un segno in un regime di spettacolarizzazione continua. In nome del realismo e del dovere di cronaca oggi si mostrano le immagini più brutali. Il tropismo verso il raccapricciante sembra innato nell’essere umano quanto la compassione. Allo stesso tempo, la sensibilità moderna tende a rimuovere il dolore che va estirpato perché ci ricorda la nostra impotenza. La tabuizzazione della sofferenza può portare però all’indifferenza. La violenza della società mediatica è sempre più estetizzata, evasiva e disimpegnata e, piuttosto che scioccare diverte. Non è la saturazione di immagini a provocare assuefazione ma è l’impossibilità di agire che offusca le emozioni. L’estrema fungibilità ed intercambiabilità delle immagini, caratteristiche della comunicazione mediale a flusso, stancano lo spettatore che vuole continuamente essere stimolato e sorpreso da nuovi contenuti; tutto ciò indebolisce la capacità di reagire agli eventi con intensità emotiva ed impegno etico. Bisogna invece prendere coscienza dell’esistente e partecipare moralmente a ciò che accade, vincendo la distanza che i media instaurano. Per risvegliare l’impegno etico è necessario mantenere in vita l’orientamento all’agire a favore di chi soffre. L’idea di una rappresentazione mediale iperrealistica e simulacrale, interpretata costantemente in un’ottica finzionale può essere pericolosa e deresponsabilizzante perché ci autorizza ad allontanarci irrimediabilmente da ciò che guardiamo, spegnendo la motivazione ad agire. Bisogna dunque risemantizzare il reale, restituendo spessore e significato al dolore e alla violenza. Perché l’impegno etico sopravviva è necessario nutrire la speranza nella possibilità dell’azione concreta. Sarebbe allora opportuno che i media raccontassero le cose in modi compatibili con gli orizzonti etici locali dei pubblici così da coinvolgerli moralmente anche a distanza. L’immagine da assolvere e non demonizzare è quindi quella che invita a pensare, risveglia la sensibilità etica e spinge all’azione.

L’immagine assolta

SALZANO, Diana
2004-01-01

Abstract

Se la violenza si esplica senza altro garante che se stessa, afferma Jean Luc Nancy, ciò si evidenzia nel rapporto indissolubile che essa ha con l’immagine: “La violenza si mette sempre in immagine, e l’immagine è ciò che, da sé, si porta davanti a sé e si autorizza da sé” (2002: 17). Più che del carattere mimetico dell’immagine, bisognerebbe interessarsi del suo valore intrinseco, della sua essenza violenta. L’immagine ha una natura mostrativa, ostensiva che è quella di esibire la presenza della cosa, di metterla in luce, porla in avanti. La violenza delle immagini artistiche, osserva l’autore, è però diversa da quella delle immagini-colpo perché l’arte tocca il reale, spietato e privo di fondo; il colpo,invece, è immediatamente il suo proprio fondo. L’estetizzazione diffusa, tipica della cultura dei media, incrementa la presenza di immagini-colpo connotate da scarsa riflessività e da una risoluzione superficiale del rappresentato. L’immagine della violenza è provocazione: sfida lo spettatore a guardare e, insieme, a tirarsi indietro. In una cultura fondata sui valori del mercato, sedurre con immagini violente significa tentare di lasciare un segno in un regime di spettacolarizzazione continua. In nome del realismo e del dovere di cronaca oggi si mostrano le immagini più brutali. Il tropismo verso il raccapricciante sembra innato nell’essere umano quanto la compassione. Allo stesso tempo, la sensibilità moderna tende a rimuovere il dolore che va estirpato perché ci ricorda la nostra impotenza. La tabuizzazione della sofferenza può portare però all’indifferenza. La violenza della società mediatica è sempre più estetizzata, evasiva e disimpegnata e, piuttosto che scioccare diverte. Non è la saturazione di immagini a provocare assuefazione ma è l’impossibilità di agire che offusca le emozioni. L’estrema fungibilità ed intercambiabilità delle immagini, caratteristiche della comunicazione mediale a flusso, stancano lo spettatore che vuole continuamente essere stimolato e sorpreso da nuovi contenuti; tutto ciò indebolisce la capacità di reagire agli eventi con intensità emotiva ed impegno etico. Bisogna invece prendere coscienza dell’esistente e partecipare moralmente a ciò che accade, vincendo la distanza che i media instaurano. Per risvegliare l’impegno etico è necessario mantenere in vita l’orientamento all’agire a favore di chi soffre. L’idea di una rappresentazione mediale iperrealistica e simulacrale, interpretata costantemente in un’ottica finzionale può essere pericolosa e deresponsabilizzante perché ci autorizza ad allontanarci irrimediabilmente da ciò che guardiamo, spegnendo la motivazione ad agire. Bisogna dunque risemantizzare il reale, restituendo spessore e significato al dolore e alla violenza. Perché l’impegno etico sopravviva è necessario nutrire la speranza nella possibilità dell’azione concreta. Sarebbe allora opportuno che i media raccontassero le cose in modi compatibili con gli orizzonti etici locali dei pubblici così da coinvolgerli moralmente anche a distanza. L’immagine da assolvere e non demonizzare è quindi quella che invita a pensare, risveglia la sensibilità etica e spinge all’azione.
2004
9788843031795
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/1128848
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