Il procedimento penale è il procedimento del « fatto », nel senso che la ragione per la quale viene avviato, svolto e concluso è la identificazione di un « fatto », per verificarne, eventualmente, la corrispondenza ad una fattispecie legale di incriminazione ed irrogare al suo autore la sanzione. L’incertezza dell’esito che caratterizza il procedimento penale sta a dimostrare quanto sia essenziale la ricostruzione del « fatto »: può accadere che il giudice dica che il « fatto » non sussiste; che, pur sussistendo, non può essere addebitato a quel determinato soggetto; che il « fatto » esiste nella sua realtà fenomenologia, ma non costituisce reato o non è previsto come tale dalla legge, così come può avvenire che il « fatto », così come ipotizzato da chi ha promosso l’azione penale, non esiste proprio. Sembra inscindibile il binomio « fatto-procedimento penale », come se non si potesse ipotizzare un procedimento penale senza ipotizzare la commissione di un « fatto ». Nel linguaggio legislativo, se c’è un termine che dovrebbe avere un significato suo proprio, ben definito, inequivoco e chiaramente intelligibile, è proprio il termine « fatto ». Sennonché, la lettura delle norme del codice di rito penale, nelle quali il termine compare, dimostra che esso è adoperato in una pluralità di significati, a volte corrispondenti al senso comune della parola, a volte indicativi di una realtà giuridica, corrispondente oppur no alla realtà degli eventi, a volte, ancora, in una dimensione convenzionale del tutto avulsa dal significato comune. Così, ad esempio, si ricorre al termine « fatto » per indicare tutte le questioni che non hanno attinenza con il diritto e che pure si discutono nell’ambito del procedimento penale. La distinzione tra quaestio facti e quaestio iuris caratterizza soprattutto il regime delle impugnazioni, per delimitare l’ambito del controllo di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali: è « questione di fatto » tutto ciò che non rientra nella « questione di diritto ». Ma, prima ancora di fermare l’attenzione sul sistema delle impugnazioni, va precisato che del « fatto » si parla già nelle battute di avvio del procedimento penale. Appare, pertanto, utile un’indagine tesa a verificare in quale significato viene assunto, di volta in volta, il termine, soprattutto al fine di chiarire che il suo uso promiscuo, indifferenziato, spesso improprio, può generare equivoci interpretativi, tali da vanificare la portata di garanzia di norme processuali. Perché questo è, in definitiva, il dato dal quale non si può prescindere: la nozione di « fatto » viene adoperata dal legislatore sempre e soltanto in funzione di garanzia di chi è sottoposto a procedimento penale. L’ispirazione è di rango costituzionale: nessuno può essere perseguito e punito per un’idea, un convincimento interiore, se il suo pensiero non si traduce in azione e se l’azione — nella forma attiva o passiva che sia — non si traduce nella violazione di un precetto penale. Se attraverso il procedimento penale si persegue un « fatto » esso deve essere identificato, senza possibilità di equivoci, nelle sue componenti essenziali, come « fatto » dell’uomo. Ebbene, questa consapevolezza manca e viene meno proprio in chi elabora le norme processuali. Già nella identificazione di ciò che può dare avvio ad un procedimento penale si registra una confusione concettuale laddove si adopera il termine « fatto » sia per intendere ciò che viene portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria, sia ciò che viene dalla stessa ritenuto rilevante al fine di avviare l’attività investigativa. Eppure, una distinzione fondamentale esiste tra il « fatto » inteso come notizia di reato e la stessa notizia di reato, dal momento che il magistrato del pubblico ministero non recepisce passivamente ogni informazione che gli pervenga attraverso i veicoli della denuncia, del referto, della relazione della polizia giudiziaria, ma opera necessariamente una scolmatura, nel senso che alcune di queste informazioni vengono intese come vere e proprie notizie di reato e ad altre viene riservata sorte diversa. Ciò significa che il « fatto » per la cui ricostruzione si avvia un’indagine investigativa non è il « fatto » così come rappresentato, ma il « fatto » così come ritenuto dal magistrato del pubblico ministero. Ma, vi è di più. Il procedimento per le indagini preliminari non tende alla ricostruzione di un « fatto », bensì all’accertamento di « fatti » plurimi — quelli rappresentati dalla polizia giudiziaria, quelli filtrati dal magistrato del pubblico ministero, quelli addotti eventualmente dall’indagato — dai quali può scaturire, ma non necessariamente emerge, il « fatto » penalmente rilevante, che sollecita l’esercizio dell’azione penale. La fluidità della fase investigativa non consente di definire, con margini di assoluta attendibilità, il « fatto » di rilevanza penale, perché questa operazione ermeneutica caratterizza il momento dell’esercizio dell’azione penale attraverso la formulazione dell’imputazione. L’imputazione, consistente nell’attribuzione di un « fatto » ad un soggetto, è il presupposto della contestazione dell’accusa, che si riempie anche dei « fatti » di rilevanza probatoria che corroborano la tesi dell’organo inquirente. L’individuazione di un « fatto » e la sua enunciazione in forma chiara e precisa costituiscono i due presupposti ineliminabili per l’effettivo riconoscimento del diritto alla difesa e del diritto al contraddittorio nella formazione della prova davanti al giudice del giudizio. La garanzia della correlazione tra il « fatto » contestato ed il « fatto » enunciato in sentenza si esplica nella previsione di meccanismi tesi ad evitare che l’imputato sia chiamato a rispondere di un « fatto » ed il giudice lo ritenga responsabile di un altro « fatto » senza che sia consentito all’interessato di apprestare adeguata difesa. Ma, il termine « fatto » ricorre necessariamente anche quando la sentenza di primo grado sia sottoposta a controllo di merito o di legittimità. Il campo della ricerca è vastissimo, ma l’ampiezza dei riferimenti non deve essere di ostacolo alla individuazione di un significato tecnico-giuridico di un termine che funga da valido criterio interpretativo soprattutto quando la descrizione legislativa è suscettibile di interpretazioni divergenti. Con questo primo contributo si intende semplicemente richiamare l’attenzione su un linguaggio legislativo poco attento alla definizione dei concetti essenziali per la operatività delle norme di garanzia.

Il "fatto" nel procedimento penale

DALIA, Gaspare
2005-01-01

Abstract

Il procedimento penale è il procedimento del « fatto », nel senso che la ragione per la quale viene avviato, svolto e concluso è la identificazione di un « fatto », per verificarne, eventualmente, la corrispondenza ad una fattispecie legale di incriminazione ed irrogare al suo autore la sanzione. L’incertezza dell’esito che caratterizza il procedimento penale sta a dimostrare quanto sia essenziale la ricostruzione del « fatto »: può accadere che il giudice dica che il « fatto » non sussiste; che, pur sussistendo, non può essere addebitato a quel determinato soggetto; che il « fatto » esiste nella sua realtà fenomenologia, ma non costituisce reato o non è previsto come tale dalla legge, così come può avvenire che il « fatto », così come ipotizzato da chi ha promosso l’azione penale, non esiste proprio. Sembra inscindibile il binomio « fatto-procedimento penale », come se non si potesse ipotizzare un procedimento penale senza ipotizzare la commissione di un « fatto ». Nel linguaggio legislativo, se c’è un termine che dovrebbe avere un significato suo proprio, ben definito, inequivoco e chiaramente intelligibile, è proprio il termine « fatto ». Sennonché, la lettura delle norme del codice di rito penale, nelle quali il termine compare, dimostra che esso è adoperato in una pluralità di significati, a volte corrispondenti al senso comune della parola, a volte indicativi di una realtà giuridica, corrispondente oppur no alla realtà degli eventi, a volte, ancora, in una dimensione convenzionale del tutto avulsa dal significato comune. Così, ad esempio, si ricorre al termine « fatto » per indicare tutte le questioni che non hanno attinenza con il diritto e che pure si discutono nell’ambito del procedimento penale. La distinzione tra quaestio facti e quaestio iuris caratterizza soprattutto il regime delle impugnazioni, per delimitare l’ambito del controllo di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali: è « questione di fatto » tutto ciò che non rientra nella « questione di diritto ». Ma, prima ancora di fermare l’attenzione sul sistema delle impugnazioni, va precisato che del « fatto » si parla già nelle battute di avvio del procedimento penale. Appare, pertanto, utile un’indagine tesa a verificare in quale significato viene assunto, di volta in volta, il termine, soprattutto al fine di chiarire che il suo uso promiscuo, indifferenziato, spesso improprio, può generare equivoci interpretativi, tali da vanificare la portata di garanzia di norme processuali. Perché questo è, in definitiva, il dato dal quale non si può prescindere: la nozione di « fatto » viene adoperata dal legislatore sempre e soltanto in funzione di garanzia di chi è sottoposto a procedimento penale. L’ispirazione è di rango costituzionale: nessuno può essere perseguito e punito per un’idea, un convincimento interiore, se il suo pensiero non si traduce in azione e se l’azione — nella forma attiva o passiva che sia — non si traduce nella violazione di un precetto penale. Se attraverso il procedimento penale si persegue un « fatto » esso deve essere identificato, senza possibilità di equivoci, nelle sue componenti essenziali, come « fatto » dell’uomo. Ebbene, questa consapevolezza manca e viene meno proprio in chi elabora le norme processuali. Già nella identificazione di ciò che può dare avvio ad un procedimento penale si registra una confusione concettuale laddove si adopera il termine « fatto » sia per intendere ciò che viene portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria, sia ciò che viene dalla stessa ritenuto rilevante al fine di avviare l’attività investigativa. Eppure, una distinzione fondamentale esiste tra il « fatto » inteso come notizia di reato e la stessa notizia di reato, dal momento che il magistrato del pubblico ministero non recepisce passivamente ogni informazione che gli pervenga attraverso i veicoli della denuncia, del referto, della relazione della polizia giudiziaria, ma opera necessariamente una scolmatura, nel senso che alcune di queste informazioni vengono intese come vere e proprie notizie di reato e ad altre viene riservata sorte diversa. Ciò significa che il « fatto » per la cui ricostruzione si avvia un’indagine investigativa non è il « fatto » così come rappresentato, ma il « fatto » così come ritenuto dal magistrato del pubblico ministero. Ma, vi è di più. Il procedimento per le indagini preliminari non tende alla ricostruzione di un « fatto », bensì all’accertamento di « fatti » plurimi — quelli rappresentati dalla polizia giudiziaria, quelli filtrati dal magistrato del pubblico ministero, quelli addotti eventualmente dall’indagato — dai quali può scaturire, ma non necessariamente emerge, il « fatto » penalmente rilevante, che sollecita l’esercizio dell’azione penale. La fluidità della fase investigativa non consente di definire, con margini di assoluta attendibilità, il « fatto » di rilevanza penale, perché questa operazione ermeneutica caratterizza il momento dell’esercizio dell’azione penale attraverso la formulazione dell’imputazione. L’imputazione, consistente nell’attribuzione di un « fatto » ad un soggetto, è il presupposto della contestazione dell’accusa, che si riempie anche dei « fatti » di rilevanza probatoria che corroborano la tesi dell’organo inquirente. L’individuazione di un « fatto » e la sua enunciazione in forma chiara e precisa costituiscono i due presupposti ineliminabili per l’effettivo riconoscimento del diritto alla difesa e del diritto al contraddittorio nella formazione della prova davanti al giudice del giudizio. La garanzia della correlazione tra il « fatto » contestato ed il « fatto » enunciato in sentenza si esplica nella previsione di meccanismi tesi ad evitare che l’imputato sia chiamato a rispondere di un « fatto » ed il giudice lo ritenga responsabile di un altro « fatto » senza che sia consentito all’interessato di apprestare adeguata difesa. Ma, il termine « fatto » ricorre necessariamente anche quando la sentenza di primo grado sia sottoposta a controllo di merito o di legittimità. Il campo della ricerca è vastissimo, ma l’ampiezza dei riferimenti non deve essere di ostacolo alla individuazione di un significato tecnico-giuridico di un termine che funga da valido criterio interpretativo soprattutto quando la descrizione legislativa è suscettibile di interpretazioni divergenti. Con questo primo contributo si intende semplicemente richiamare l’attenzione su un linguaggio legislativo poco attento alla definizione dei concetti essenziali per la operatività delle norme di garanzia.
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