La scelta di dedicare quest'indagine, come si evince dal titolo, agli aspetti salienti del fenomeno transattivo nell'ambito dell'ordi¬namento giuridico romano, anziché, come potrebbe, a prima vista, sembrare più corretto, alla transazione ovvero al transigere, è il risultato di una presa d'atto delle numerose insidie costantemente in agguato per coloro che intendono avvicinarsi allo studio di tale materia senza prima aver adeguatamente ponderato l'intrinseca problematicità, sostanziale prima ancora che giuridica, di tali ca¬tegorie concettuali. Se, finora, infatti i termini transigere, transazione, transigere, transactio, com' è noto, sono stati usati, dagli studiosi che se ne sono occupati, conformemente a quella che può senza alcun dubbio ritenersi la consolidata communis opinio al riguardo, come tra di loro perfettamente equivalenti ai fini della descrizione, dell'analisi e della comprensione del fenomeno in esame, ciò è accaduto in ragione dell'implicito, quanto pacifico ed incontestato, presupposto che vi fosse una piena corrispondenza tra ciò che nel linguaggio giuridico moderno viene normalmente e correntemente inteso attraverso l'uso di tale terminologia e ciò che, a sua volta, essa significava per i giuristi romani i quali, per primi, la adoperarono in un' accezione tecnico-giuridica. In realtà, nell' ambito della disciplina nominalmente riferita alla transactio e, più in generale, al transigere, si possono riscontrare non poche ipotesi per le quali non risulta sicuramente agevole fare riferimento allo schema transattivo come è oggi comunemente in¬teso, vale a dire come accordo tra due o più parti le quali, facendosi delle reciproche concessioni, mirano a prevenire o far cessare una controversia tra di loro . Più precisamente, come meglio si vedrà nel corso dell 'indagine, in svariate occasioni le fonti ci pongono innanzi delle fattispecie, per descrivere le quali viene impiegato il verbo transigere, se non addirittura delle vere e proprie convenzioni, espressamente qua¬lificate come transactiones, con riguardo alle quali, però, risulta difficile scorgere, in concreto, la sussistenza di una o più di quelle che dovrebbero costituirne, secondo l'attuale communis opinio , le caratteristiche essenziali e connotanti. Non di rado, invero, ci si trova di fronte ad accordi finalizzati ad un riassetto degli interessi, ad una rideterminazione di effetti negoziali già in corso o, più in generale, ad un riequilibrio delle posizioni giuridiche delle parti, piuttosto che ad un bonario componimento volto a far cessare, ovvero a prevenire, una controversia. Manca, in definitiva, in tali ipotesi un qualunque riferimento non già ad una lite vera e propria, già in corso o solo potenziale, ma addirittura ad una qualunque forma di contestazione di diritti, l'incertezza del cui esito e, prima ancora, del suo stesso fondamento, dovrebbe indurre i soggetti a preferire una composizione amichevole. Di conseguenza, risulta quantomeno inadeguato, se non fuorviante, un approccio a queste fattispecie condotto mediante l'utilizzo di categorie e di schemi che si rivelano, in realtà, non del tutto calzanti rispetto all' oggetto concreto d'indagine. A tale riguardo, tuttavia, non sembra sufficiente, come pure è stato fatto, evidenziare la polisemia dei significanti transigere e transactio, persistente quantomeno fino a tutta la metà del secondo secolo d.C.: se è vero, infatti, che da un'analisi delle fonti letterarie e giuridiche si può evincere come solo molto tardi, e comunque non prima della fine del II sec./ inizi del III sec. d. C., si assistette ad un sufficiente consolidamento del significato giuridico di tali termini, bisogna tuttavia ritenere che, quantomeno nel titolo 15 del secondo libro dei Digesta e nel titolo IV del secondo libro del Codex di Giustiniano, specificamente dedicati all'oggetto del nostro studio, le fonti messe insieme dai compilatori siano state da costoro scelte e collocate insieme in quanto, ai loro occhi, esse potevano, senza dubbi o tentennamenti, essere riferite ad un fenomeno sì poliedrico e variegato - caratteristica questa di cui essi dimostrano di avere perfetta consapevolezza allorquando per le rubriche di entrambi i predetti titoli impiegano, a mio avviso non celta casualmente, il plurale "De transactionibus" - ma, in ogni caso, intrinsecamente unitario, al quale organicamente e coerentemente riferire la disci¬plina contenuta nelle fonti da essi selezionate. In altri termini, se è sicuramente plausibile, come hanno dimo¬strato studi anche recenti", che solo nell' età degli Antonini si ebbe la specificazione, in ambito giuridico, di un significato abbastanza univoco di transigere e transactio , non sembra possa mettersi in dubbio che la riflessione dei prudentes ebbe a maturare intorno ad una vicenda da essi identificata, con sufficiente margine di certezza, come sostanzialmente unitaria nei suoi contenuti e nei suoi confini. A seguito di questa constatazione non residuano, a mio avviso, che due possibili atteggiamenti: o concentrare l'attenzione su quel¬le ipotesi per le quali sole si può riscontrare coerenza e congruità tra il modello ideale (ed astratto) di transazione comunemente accettato, da un lato, e la concreta casistica offerta dalle fonti, dall'altro, rinunciando però, in tal modo, a penetrare la totalità del fenomeno transattivo nell'ambito dell'esperienza giuridica dei romani, oppure deporre il pur rassicurante bagaglio concettuale tradizionale e tentare di verificare l'effettiva realtà del fenomeno stesso, ricostruendone le principali fasi evolutive. È quest'ultima la prospettiva d'indagine che a me sembra maggiormente proficua allorché ci si prefigga non tanto di rinvenire dei precedenti storici della disciplina attuale di un istituto giuridico, quanto di cercare, nei limiti del possibile, di comprendere lo sviluppo diacronico della regolamentazione di un determinato fenomeno giuridico nonchè le ragioni ed i fattori che vi hanno, in vario modo e con diversa intensità, contribuito. Ciò mi sembra tanto più ncessario ed utile quando, come in questo caso, si aspira a porre in luce non la disciplina di un istituto nella sua interezza ma, piuttosto, individuarne i nodi fondamentali dai quali possa rilevarsi, come spero potrà accadere nel prosieguo di questo lavoro, che l'unitarietà del fenomeno transattivo, nell'esperienza giuridica romana, non fu tale dal punto di vista strutturale quanto da quello essenzialmente funzionale; se pure, infatti, venne, da una certa epoca in poi, individuato uno schema negoziale, una struttura intorno alla quale costruire ed individuare la disciplina della transactio, fatta sicuramente rientrare ne Il ' ambito degli accordi bilaterali a carattere obbligatorio, tuttavia l' unitarietà intrinseca del transigere fu, invece, data dal ricorrere di un altro elemento: l'obiettivo dell'eliminazione dell'incertezza, ossia della res dubia, come si esprimono a tal proposito le fonti. Ma il concetto di res dubia, come si vedrà, è per i romani mol¬to più ampio di quello cui noi oggi siamo abituati: non si tratta, infatti, soltanto di quello stato di incertezza, quantomeno sogget¬tiva, connesso all'insorgere di una controversia o addirittura di una vera e propria lite giudiziaria; rientrano in esso, invero, anche tutte quelle situazioni in cui non vi è una contestazione di diritti ma vi è semplicemente un margine, più o meno significativo, di mutevolezza circa il contenuto di essi o, finanche, circa la loro concreta effettività: si pensi alle convenzioni in materia di diritto agli alimenti, pure esse espressamente definite transactiones, e la cui disciplina occupa tanta parte di D. 2.15, riguardo alle quali, in realtà, quello che è incerto non appare essere l' an del diritto van¬tato dall'alimentando quanto, piuttosto, il quantum ed il quomodo , la misura e le concrete modalità dei benefici che ne derivano per l'avente diritto. Tale mera identità funzionale del fenomeno giuridico in esame sembra evincersi già da D.2 .15.1, in cui è contenuta la definizione, attribuita ad Ulpiano, del transigere; l'assetto disciplinare che ne consegue si giustifica e si comprende, pertanto, esclusivamente in relazione all'unitarietà del predetto fine: eliminare, appunto, l'in¬certezza relativa ad una determinata situazione giuridica. Se, come si è detto, la finalità transatti va viene perseguita at¬traverso schemi negoziali diversi, essi, risultano, tuttavia, fondati su di una necessaria corrispettività tra gli obblighi assunti dai transigenti; dunque, essi hanno come denominatore comune la caratteristica dell' onerosità. La validità di questa affermazione, come è noto, di recente, è stata sottoposta a serrate critiche nell’ambito di un importante contributo:', che ha affrontato il problema delle origini della tran¬sactio da un punto di vista sicuramente innovativo e, per molti versi dirompente, rispetto ad una tradizione bimillenaria di studi e di pensiero giuridico consolidatasi intorno a tale materia. In esso, infatti, attraverso un 'esegesi radicalmente rinnovata di D. 2.15.1 e C. 2.4.38 - le due fonti comunemente considerate come le colon¬ne portanti sulle quali è stata costruita l'elaborazione scientifica sull'argomento nella prospettiva di una sostanziale corrisponden¬za tra la moderna transazione, da un lato, e la romana transactio , dall'altro - si è ritenuto di poter porre seriamente in discussione l'archetipo transatti vo, accolto tra l'altro anche nei principali codici di derivazione romanistica, da cui partono gli interpreti moderni nelle loro indagini, ricalcando sostanzialmente l'impostazione che fu già dei Glossatori e dei Commentatori, e quindi di poter sostene¬re che pure la realtà strutturale, e non solo quella funzionale, della transazione nel diritto romano fosse ben diversa da ciò che comune¬mente si crede, giungendosi, in tal modo, a negare la corrispondenza tra la moderna transazione e la transactio, e, soprattutto, che “ciò che il linguaggio tecnico moderno indica con transigere sia ciò cui i giuristi romani facevano riferimento con transigere” Si tratta, com'è evidente, di una tesi radicalmente eversiva di quello che ha sin qui rappresentato un vero e proprio postulato della cultura giuridica occidentale; volendo condividerla, si dovrebbe, infatti, con il suo autore, ritenere l'acronicità dell'affermazione secondo cui caratteristica della transazione sarebbero le recipro¬che concessioni che le parti effettuano l'una in favore dell'altra si tratterebbe, invero, null'altro che di un'apodittica retrodata¬zione all'elaborazione della giurisprudenza romana di un aspetto dell'odierno schema transattivo codicistico. Al riguardo, si può sin d'ora osservare che tale tesi sembra condizionata dalla presupposizione di una biunivoca corrispondenza tra l'aspetto strutturale del negozio transattivo e quello in senso stretto funzionale, che si continua ad individuare nella prevenzione ovvero estinzione di una controversia (già in atto o solo potenzia¬le). In altri termini, poichè all'esito del suo percorso di indagine concernente le fonti giuridiche, ma anche letterarie, risalenti fino a tutto il II sec. d.C., il Fino ritiene di poter affermare che da esse non si ricaverebbe un impiego dei segni transigere e transactio necessariamente finalizzato ad indicare l'eliminazione ovvero la prevenzione di una controversia, egli ne fa conseguire che in esse mancherebbe pure qualunque attestazione circa la ricorrenza di una particolare struttura della transactio e, in particolare, circa la neces¬sità di reciproche concessioni tra le parti ovvero di prestazioni che rendano vincolante l'accordo transattivo. Anzi, secondo l'Autore, lo stesso elemento convenzionale, dalla lettura delle fonti, risulte-rebbe avere un ruolo assai limitato: l'impiego del verbo transigere, invero, anziché indicare la conclusione di un negozio bilaterale, si sostanzierebbe in un atto unilaterale di rinuncia a far valere (in tutto o in parte) le proprie ragioni, posto in essere generosamente e, comunque, in assenza di alcun obbligo in tal senso (liberalitate) da (almeno) una delle parti, senza alcun bisogno dell'intervento dell' altra. Il transigere, così, secondo la ricostruzione proposta alla luce di una lettura totalmente nuova di D. 2.15.1 e di C. 2.4.38 ver¬rebbe a rientrare, insieme al pacisci donationis causa, nell' ambito di una più ampia categoria rappresentata dalliberalitate remittere, differenziandosi dal primo esclusivamente in ragione dell'ogget¬to: rispettivamente, una una res certa et indubitata ovvero una res dubia e/o una lis incerta neque finita'. Com'è evidente, in questa ricostruzione viene a perdere qua¬lunque rilevanza il profilo distintivo rappresentato dalla onerosità! gratuità dell'atto: sovvertendo, anche a tale riguardo, un caposaldo della ricostruzione concettuale della transactio fin qui imperante", l'Autore asserisce che si tratterebbe di una lettura preconcetta volta a rinvenire negli schemi romani un elemento strutturale (le reci¬proche concessioni, appunto) totalmente privo di rilevanza in una prospettiva, quale sarebbe stata, secondo questa particolare rico¬struzione, quella adottata dai prudentes, tutta tesa ad assolutizzare una funzione della transazione circoscritta nel porre termine ad un rapporto giuridico, non necessariamente controverso. Si tratta di una tesi che, a mio avviso, non può essere integral¬mente accolta: essa infatti, se da un lato, attraverso la verifica della perdurante polisemia del verbo transigere fino quasi alla fine del II sec. d.C., contribuisce a gettare nuova luce su quello che può ritenersi essere stato l'atteggiamento dei giuristi romani a fronte dell'enuclearsi dello schema negoziale transattivo, consentendo, così, spesso, di sciogliere nodi altrimenti non facilmente risolvibili in relazione alla lettura ed alla comprensione delle fonti, dall'altro non sembra poter essere seguita fino in fondo laddove essa giun¬ge, come scientemente e deliberatamente si propone, a (tentare) di demolire l'archetipo transattivo radicato nella nostra tradizione giuridica e culturale. Ciò perché la peculiare lettura che viene ad essere proposta per i due testi fondamentali in materia di transazio¬ne, D. 2.15.1 (Ulp. 50 ad ed.) e C. 2.4.38 non appare, a mio modo di vedere, condivisibile, in quanto poggia su una interpretazione del loro contenuto (e, per la prima delle due, su una determinante ipotetica ricostruzione del tenore letterale) che, pur se in linea di pura logica appare sicuramente sostenibile, è tuttavia priva di quella tangibile evidenza che, penso, essa dovrebbe invece necessariamen¬te possedere al fine di poter aspirare a mettere seriamente in crisi e, quindi, (gettare le basi per) sostituire una consolidata tradizione bimillenaria di dottrina e di pensiero giuridico". Né le cose mi sembrano cambiare sostanzialmente laddove si ammetta, come Fino pure fa, che a monte della rinuncia unilate¬rale in cui si concreterebbe il transigere, e dalla quale sola, a suo dire, ne dipenderebbero gli effetti, vi potrebbe eventualmente essere comunque un'attività prodromica - ovvero delle trattative - cui contribuiscano tanto la volontà del rinunziante che quella del beneficiario della rinunzia": se, dunque, si ha consapevolez¬za di tale antefatto, al punto anzi da ritenere che nella maggior parte dei casi la vicenda transattiva avesse tale caratteristica di accordo che prevede reciproci vantaggi e sacrifici, bisognerebbe allora capire perché i giuristi romani non avrebbero dovuto dare la giusta considerazione a quest' aspetto sicuramente fondamentale nell' economia della vicenda negoziale che viene ad intercorrere tra le parti confliggenti. In altri termini, se pure l'ipotesi di solu¬zione della controversia attraverso il reciproco abbandono, totale o parziale, delle pro tiene l'Autore, un'ipotesi, seppur frequente, ma in ogni caso non esaustiva del genus «transazione» Il , in realtà, la vicenda transattiva chiudeva una contrapposizione tra due parti in conflitto (quanto meno potenziale) o comunque-eliminava uno stato, più generale, di incertezza, ma sul presupposto che le parti fossero disponibili a cedere in ordine a qualche aspetto della loro pretesa soltanto in quanto (e pressocchè nella stessa misura in cui) anche l'altra fosse disponibile a fare altrettanto (concessioni reciproche, appunto). Ignorare questo presupposto, o comunque ritenere che ad esso non venisse data rilevanza alcuna dai prudentes"; i quali avrebbero preso in considerazione esclusivamente l'atto di colui che rinun¬cia a far valere una propria prerogativa, prescindendo del tutto dal comportamento del beneficiario della rinuncia, mi sembra, in qualche modo, voler dicotomizzare, travisandola, una vicenda che invece è in sé intrinsecamente unitaria. Come una res dubia, insomma, sussiste in quanto vi sono due o più parti portatrici di interessi, almeno potenziamente, in con¬flitto, così il (ri)assetto delle situazioni giuridiche coinvolte non può prescindere dal coinvolgimento di una di esse: in entrambi i casi, la corretta comprensione della dinamica delle vicenda non può prescindere dalla originaria e perdurante interrelazione delle. posizioni giuridiche contrapposte." Peraltro, la condivisibilità della tesi del Fino assume una rilevanza solo marginale ai fini del presente studio che si propone non di ricostruire le origini del feno¬meno transattivo quanto di indagarne alcuni profili essenziali alla luce dell'assetto che esso ricevette nelle fonti giuridiche a partire dall' età Severiana. Il presente lavoro, dunque, una volta (l'i) assunta come dato di partenza la sostanziale corrispondenza strutturale, tra transigerei transactio e transigere/transazione, aspira a ricostruire le caratte¬ristiche del fenomeno transattivo nel diritto romano quali posso¬no ricavarsi dall'analisi esegetica delle fonti: intento certamente già perseguito nella storia della nostra disciplina ma che, ritengo, possa oggi utilmente essere riproposto adottando una nuova pro¬spettiva, quella, di cui si è prima fatto cenno, che appunto intende tenere in adeguato conto la variegatezza degli schemi utilizzati per transigere in una con la peculiare ed unitaria funzionalità che connota il fenomeno, vale a dire l'eliminazione dell'incertezza, intesa però in una gamma di significati molto più ampia di quella attualmente accettata per la figura ad essa corrispondente nei mo¬derni ordinamenti. Tale angolo di visuale, mi sembra, perciò, giustificare il propo¬sito di contribuire ad una migliore comprensione della disciplina di quello che appare il principale strumento negoziale di amichevole composizione di interessi confliggenti, inserendoci in una ricca e feconda tradizioni di studi. È noto, infatti, che tramontate le sta¬gioni della pandettisitica e dell'interpolazionismo, di cui possono considerarsi epigoni, con specifico riferimento al nostro tema d'indagine, le monografie, rispettivamente, del Bertolini'" e della Peterlongo", alla transactio hanno dedicato importanti studi alcuni fra i più insigni romanisti contemporanei (Schiavone", Melillo 17 , Gallo 18 .Burdese!"), i quali hanno, tuttavia, posto la loro attenzione essenzialmente sull' aspetto sistematico, mirando ad inquadrare la transactio nell' ambito del più complessivo ed articolato fenomeno della negozialità romana. La consapevolezza di poter difficilmente aggiungere qualcosa . di veramente nuovo ad un profilo così ampiamente dibattuto ed analizzato, mi ha indotto ad orientare, prevalentemente, l'indagi¬ne verso la ricostruzione dei profili concreti del fenomeno, nella convinzione che l'adozione della prospettiva dianzi accennata, consenta di meglio comprendere il venir in essere e l'evoluzione di un modello giuridico di composizione volontaria, volto all'eli-minazione di qualunque forma di incertezza, storicamente afferma¬tosi in alternativa al ricorso all'autorità giudiziaria; con l'evidente necessità di approfondire, in relazione al concreto atteggiarsi de¬gli specifici interessi in conflitto, nell' ambito della plurisecolare esperienza giuridica romana, le significative differenze sussistenti tra i profili e le modalità di impiego dello strumento transattivo nell'epoca più risalente, nella quale il ricorso ad un giudice estraneo per dirimere una controversia è considerato un evento eccezionale, rispetto a periodi storici più recenti nei quali l'intervento del ma¬gistrato è (quanto meno da un punto di vista formale) volontaria¬mente e concordemente invocato dai contendenti ed è finalizzato essenzialmente ad impostare, con la collaborazione di questi ul¬timi, uno schema di giudizio che sarà poi applicato da un giudice non professionista; fino ad arrivare, da ultimo, ad una fase in cui l'autorità statuale ha tra i suoi connotati essenziali anche quello della decisione delle controversie, di norma interamente sottratta alla volontà dei litiganti. Il presente lavoro, dunque, si articola attraverso le seguenti tappe. Dapprima si ripercorrono i momenti salienti della evolu¬zione del fenomeno transattivo dalle origini fino al III-II sec. a.C.; successivamente, si analizzerà il processo di formazione ed iden¬tificazione di uno schema negoziale corrispondente al multiforme impiego del verbo transigere nelle fonti giuridiche, od anche let¬terarie, a nostra disposizione"; ci si soffermerà, poi, sul momento in cui la transactio venne a delinearsi quale figura autonoma di negozio bilaterale, non più assorbito nel fenomeno generale dei pacta, nonché sulla struttura e sugli elementi essenziali del nego¬zio transattivo; infine, si porrà attenzione ai conseguenti problemi della qualificazione rispetto ai c.d. nova negotia o contratti sine nomine e del suo regime processuale. Avendo come obiettivo primario un'inquadramento storico¬-sistematico di rappresentazione statica e formale del fenomeno indagato, si cercherà, altresì, di coglierne le caratteristiche che esso, nei diversi periodi della storia di Roma, venne ad assumere per tarsi all'evoluzione politica, economica e sociale di quella realtà.

Il fenomeno transattivo nell'esperienza giuridica romana

FASOLINO, Francesco
2008-01-01

Abstract

La scelta di dedicare quest'indagine, come si evince dal titolo, agli aspetti salienti del fenomeno transattivo nell'ambito dell'ordi¬namento giuridico romano, anziché, come potrebbe, a prima vista, sembrare più corretto, alla transazione ovvero al transigere, è il risultato di una presa d'atto delle numerose insidie costantemente in agguato per coloro che intendono avvicinarsi allo studio di tale materia senza prima aver adeguatamente ponderato l'intrinseca problematicità, sostanziale prima ancora che giuridica, di tali ca¬tegorie concettuali. Se, finora, infatti i termini transigere, transazione, transigere, transactio, com' è noto, sono stati usati, dagli studiosi che se ne sono occupati, conformemente a quella che può senza alcun dubbio ritenersi la consolidata communis opinio al riguardo, come tra di loro perfettamente equivalenti ai fini della descrizione, dell'analisi e della comprensione del fenomeno in esame, ciò è accaduto in ragione dell'implicito, quanto pacifico ed incontestato, presupposto che vi fosse una piena corrispondenza tra ciò che nel linguaggio giuridico moderno viene normalmente e correntemente inteso attraverso l'uso di tale terminologia e ciò che, a sua volta, essa significava per i giuristi romani i quali, per primi, la adoperarono in un' accezione tecnico-giuridica. In realtà, nell' ambito della disciplina nominalmente riferita alla transactio e, più in generale, al transigere, si possono riscontrare non poche ipotesi per le quali non risulta sicuramente agevole fare riferimento allo schema transattivo come è oggi comunemente in¬teso, vale a dire come accordo tra due o più parti le quali, facendosi delle reciproche concessioni, mirano a prevenire o far cessare una controversia tra di loro . Più precisamente, come meglio si vedrà nel corso dell 'indagine, in svariate occasioni le fonti ci pongono innanzi delle fattispecie, per descrivere le quali viene impiegato il verbo transigere, se non addirittura delle vere e proprie convenzioni, espressamente qua¬lificate come transactiones, con riguardo alle quali, però, risulta difficile scorgere, in concreto, la sussistenza di una o più di quelle che dovrebbero costituirne, secondo l'attuale communis opinio , le caratteristiche essenziali e connotanti. Non di rado, invero, ci si trova di fronte ad accordi finalizzati ad un riassetto degli interessi, ad una rideterminazione di effetti negoziali già in corso o, più in generale, ad un riequilibrio delle posizioni giuridiche delle parti, piuttosto che ad un bonario componimento volto a far cessare, ovvero a prevenire, una controversia. Manca, in definitiva, in tali ipotesi un qualunque riferimento non già ad una lite vera e propria, già in corso o solo potenziale, ma addirittura ad una qualunque forma di contestazione di diritti, l'incertezza del cui esito e, prima ancora, del suo stesso fondamento, dovrebbe indurre i soggetti a preferire una composizione amichevole. Di conseguenza, risulta quantomeno inadeguato, se non fuorviante, un approccio a queste fattispecie condotto mediante l'utilizzo di categorie e di schemi che si rivelano, in realtà, non del tutto calzanti rispetto all' oggetto concreto d'indagine. A tale riguardo, tuttavia, non sembra sufficiente, come pure è stato fatto, evidenziare la polisemia dei significanti transigere e transactio, persistente quantomeno fino a tutta la metà del secondo secolo d.C.: se è vero, infatti, che da un'analisi delle fonti letterarie e giuridiche si può evincere come solo molto tardi, e comunque non prima della fine del II sec./ inizi del III sec. d. C., si assistette ad un sufficiente consolidamento del significato giuridico di tali termini, bisogna tuttavia ritenere che, quantomeno nel titolo 15 del secondo libro dei Digesta e nel titolo IV del secondo libro del Codex di Giustiniano, specificamente dedicati all'oggetto del nostro studio, le fonti messe insieme dai compilatori siano state da costoro scelte e collocate insieme in quanto, ai loro occhi, esse potevano, senza dubbi o tentennamenti, essere riferite ad un fenomeno sì poliedrico e variegato - caratteristica questa di cui essi dimostrano di avere perfetta consapevolezza allorquando per le rubriche di entrambi i predetti titoli impiegano, a mio avviso non celta casualmente, il plurale "De transactionibus" - ma, in ogni caso, intrinsecamente unitario, al quale organicamente e coerentemente riferire la disci¬plina contenuta nelle fonti da essi selezionate. In altri termini, se è sicuramente plausibile, come hanno dimo¬strato studi anche recenti", che solo nell' età degli Antonini si ebbe la specificazione, in ambito giuridico, di un significato abbastanza univoco di transigere e transactio , non sembra possa mettersi in dubbio che la riflessione dei prudentes ebbe a maturare intorno ad una vicenda da essi identificata, con sufficiente margine di certezza, come sostanzialmente unitaria nei suoi contenuti e nei suoi confini. A seguito di questa constatazione non residuano, a mio avviso, che due possibili atteggiamenti: o concentrare l'attenzione su quel¬le ipotesi per le quali sole si può riscontrare coerenza e congruità tra il modello ideale (ed astratto) di transazione comunemente accettato, da un lato, e la concreta casistica offerta dalle fonti, dall'altro, rinunciando però, in tal modo, a penetrare la totalità del fenomeno transattivo nell'ambito dell'esperienza giuridica dei romani, oppure deporre il pur rassicurante bagaglio concettuale tradizionale e tentare di verificare l'effettiva realtà del fenomeno stesso, ricostruendone le principali fasi evolutive. È quest'ultima la prospettiva d'indagine che a me sembra maggiormente proficua allorché ci si prefigga non tanto di rinvenire dei precedenti storici della disciplina attuale di un istituto giuridico, quanto di cercare, nei limiti del possibile, di comprendere lo sviluppo diacronico della regolamentazione di un determinato fenomeno giuridico nonchè le ragioni ed i fattori che vi hanno, in vario modo e con diversa intensità, contribuito. Ciò mi sembra tanto più ncessario ed utile quando, come in questo caso, si aspira a porre in luce non la disciplina di un istituto nella sua interezza ma, piuttosto, individuarne i nodi fondamentali dai quali possa rilevarsi, come spero potrà accadere nel prosieguo di questo lavoro, che l'unitarietà del fenomeno transattivo, nell'esperienza giuridica romana, non fu tale dal punto di vista strutturale quanto da quello essenzialmente funzionale; se pure, infatti, venne, da una certa epoca in poi, individuato uno schema negoziale, una struttura intorno alla quale costruire ed individuare la disciplina della transactio, fatta sicuramente rientrare ne Il ' ambito degli accordi bilaterali a carattere obbligatorio, tuttavia l' unitarietà intrinseca del transigere fu, invece, data dal ricorrere di un altro elemento: l'obiettivo dell'eliminazione dell'incertezza, ossia della res dubia, come si esprimono a tal proposito le fonti. Ma il concetto di res dubia, come si vedrà, è per i romani mol¬to più ampio di quello cui noi oggi siamo abituati: non si tratta, infatti, soltanto di quello stato di incertezza, quantomeno sogget¬tiva, connesso all'insorgere di una controversia o addirittura di una vera e propria lite giudiziaria; rientrano in esso, invero, anche tutte quelle situazioni in cui non vi è una contestazione di diritti ma vi è semplicemente un margine, più o meno significativo, di mutevolezza circa il contenuto di essi o, finanche, circa la loro concreta effettività: si pensi alle convenzioni in materia di diritto agli alimenti, pure esse espressamente definite transactiones, e la cui disciplina occupa tanta parte di D. 2.15, riguardo alle quali, in realtà, quello che è incerto non appare essere l' an del diritto van¬tato dall'alimentando quanto, piuttosto, il quantum ed il quomodo , la misura e le concrete modalità dei benefici che ne derivano per l'avente diritto. Tale mera identità funzionale del fenomeno giuridico in esame sembra evincersi già da D.2 .15.1, in cui è contenuta la definizione, attribuita ad Ulpiano, del transigere; l'assetto disciplinare che ne consegue si giustifica e si comprende, pertanto, esclusivamente in relazione all'unitarietà del predetto fine: eliminare, appunto, l'in¬certezza relativa ad una determinata situazione giuridica. Se, come si è detto, la finalità transatti va viene perseguita at¬traverso schemi negoziali diversi, essi, risultano, tuttavia, fondati su di una necessaria corrispettività tra gli obblighi assunti dai transigenti; dunque, essi hanno come denominatore comune la caratteristica dell' onerosità. La validità di questa affermazione, come è noto, di recente, è stata sottoposta a serrate critiche nell’ambito di un importante contributo:', che ha affrontato il problema delle origini della tran¬sactio da un punto di vista sicuramente innovativo e, per molti versi dirompente, rispetto ad una tradizione bimillenaria di studi e di pensiero giuridico consolidatasi intorno a tale materia. In esso, infatti, attraverso un 'esegesi radicalmente rinnovata di D. 2.15.1 e C. 2.4.38 - le due fonti comunemente considerate come le colon¬ne portanti sulle quali è stata costruita l'elaborazione scientifica sull'argomento nella prospettiva di una sostanziale corrisponden¬za tra la moderna transazione, da un lato, e la romana transactio , dall'altro - si è ritenuto di poter porre seriamente in discussione l'archetipo transatti vo, accolto tra l'altro anche nei principali codici di derivazione romanistica, da cui partono gli interpreti moderni nelle loro indagini, ricalcando sostanzialmente l'impostazione che fu già dei Glossatori e dei Commentatori, e quindi di poter sostene¬re che pure la realtà strutturale, e non solo quella funzionale, della transazione nel diritto romano fosse ben diversa da ciò che comune¬mente si crede, giungendosi, in tal modo, a negare la corrispondenza tra la moderna transazione e la transactio, e, soprattutto, che “ciò che il linguaggio tecnico moderno indica con transigere sia ciò cui i giuristi romani facevano riferimento con transigere” Si tratta, com'è evidente, di una tesi radicalmente eversiva di quello che ha sin qui rappresentato un vero e proprio postulato della cultura giuridica occidentale; volendo condividerla, si dovrebbe, infatti, con il suo autore, ritenere l'acronicità dell'affermazione secondo cui caratteristica della transazione sarebbero le recipro¬che concessioni che le parti effettuano l'una in favore dell'altra si tratterebbe, invero, null'altro che di un'apodittica retrodata¬zione all'elaborazione della giurisprudenza romana di un aspetto dell'odierno schema transattivo codicistico. Al riguardo, si può sin d'ora osservare che tale tesi sembra condizionata dalla presupposizione di una biunivoca corrispondenza tra l'aspetto strutturale del negozio transattivo e quello in senso stretto funzionale, che si continua ad individuare nella prevenzione ovvero estinzione di una controversia (già in atto o solo potenzia¬le). In altri termini, poichè all'esito del suo percorso di indagine concernente le fonti giuridiche, ma anche letterarie, risalenti fino a tutto il II sec. d.C., il Fino ritiene di poter affermare che da esse non si ricaverebbe un impiego dei segni transigere e transactio necessariamente finalizzato ad indicare l'eliminazione ovvero la prevenzione di una controversia, egli ne fa conseguire che in esse mancherebbe pure qualunque attestazione circa la ricorrenza di una particolare struttura della transactio e, in particolare, circa la neces¬sità di reciproche concessioni tra le parti ovvero di prestazioni che rendano vincolante l'accordo transattivo. Anzi, secondo l'Autore, lo stesso elemento convenzionale, dalla lettura delle fonti, risulte-rebbe avere un ruolo assai limitato: l'impiego del verbo transigere, invero, anziché indicare la conclusione di un negozio bilaterale, si sostanzierebbe in un atto unilaterale di rinuncia a far valere (in tutto o in parte) le proprie ragioni, posto in essere generosamente e, comunque, in assenza di alcun obbligo in tal senso (liberalitate) da (almeno) una delle parti, senza alcun bisogno dell'intervento dell' altra. Il transigere, così, secondo la ricostruzione proposta alla luce di una lettura totalmente nuova di D. 2.15.1 e di C. 2.4.38 ver¬rebbe a rientrare, insieme al pacisci donationis causa, nell' ambito di una più ampia categoria rappresentata dalliberalitate remittere, differenziandosi dal primo esclusivamente in ragione dell'ogget¬to: rispettivamente, una una res certa et indubitata ovvero una res dubia e/o una lis incerta neque finita'. Com'è evidente, in questa ricostruzione viene a perdere qua¬lunque rilevanza il profilo distintivo rappresentato dalla onerosità! gratuità dell'atto: sovvertendo, anche a tale riguardo, un caposaldo della ricostruzione concettuale della transactio fin qui imperante", l'Autore asserisce che si tratterebbe di una lettura preconcetta volta a rinvenire negli schemi romani un elemento strutturale (le reci¬proche concessioni, appunto) totalmente privo di rilevanza in una prospettiva, quale sarebbe stata, secondo questa particolare rico¬struzione, quella adottata dai prudentes, tutta tesa ad assolutizzare una funzione della transazione circoscritta nel porre termine ad un rapporto giuridico, non necessariamente controverso. Si tratta di una tesi che, a mio avviso, non può essere integral¬mente accolta: essa infatti, se da un lato, attraverso la verifica della perdurante polisemia del verbo transigere fino quasi alla fine del II sec. d.C., contribuisce a gettare nuova luce su quello che può ritenersi essere stato l'atteggiamento dei giuristi romani a fronte dell'enuclearsi dello schema negoziale transattivo, consentendo, così, spesso, di sciogliere nodi altrimenti non facilmente risolvibili in relazione alla lettura ed alla comprensione delle fonti, dall'altro non sembra poter essere seguita fino in fondo laddove essa giun¬ge, come scientemente e deliberatamente si propone, a (tentare) di demolire l'archetipo transattivo radicato nella nostra tradizione giuridica e culturale. Ciò perché la peculiare lettura che viene ad essere proposta per i due testi fondamentali in materia di transazio¬ne, D. 2.15.1 (Ulp. 50 ad ed.) e C. 2.4.38 non appare, a mio modo di vedere, condivisibile, in quanto poggia su una interpretazione del loro contenuto (e, per la prima delle due, su una determinante ipotetica ricostruzione del tenore letterale) che, pur se in linea di pura logica appare sicuramente sostenibile, è tuttavia priva di quella tangibile evidenza che, penso, essa dovrebbe invece necessariamen¬te possedere al fine di poter aspirare a mettere seriamente in crisi e, quindi, (gettare le basi per) sostituire una consolidata tradizione bimillenaria di dottrina e di pensiero giuridico". Né le cose mi sembrano cambiare sostanzialmente laddove si ammetta, come Fino pure fa, che a monte della rinuncia unilate¬rale in cui si concreterebbe il transigere, e dalla quale sola, a suo dire, ne dipenderebbero gli effetti, vi potrebbe eventualmente essere comunque un'attività prodromica - ovvero delle trattative - cui contribuiscano tanto la volontà del rinunziante che quella del beneficiario della rinunzia": se, dunque, si ha consapevolez¬za di tale antefatto, al punto anzi da ritenere che nella maggior parte dei casi la vicenda transattiva avesse tale caratteristica di accordo che prevede reciproci vantaggi e sacrifici, bisognerebbe allora capire perché i giuristi romani non avrebbero dovuto dare la giusta considerazione a quest' aspetto sicuramente fondamentale nell' economia della vicenda negoziale che viene ad intercorrere tra le parti confliggenti. In altri termini, se pure l'ipotesi di solu¬zione della controversia attraverso il reciproco abbandono, totale o parziale, delle pro tiene l'Autore, un'ipotesi, seppur frequente, ma in ogni caso non esaustiva del genus «transazione» Il , in realtà, la vicenda transattiva chiudeva una contrapposizione tra due parti in conflitto (quanto meno potenziale) o comunque-eliminava uno stato, più generale, di incertezza, ma sul presupposto che le parti fossero disponibili a cedere in ordine a qualche aspetto della loro pretesa soltanto in quanto (e pressocchè nella stessa misura in cui) anche l'altra fosse disponibile a fare altrettanto (concessioni reciproche, appunto). Ignorare questo presupposto, o comunque ritenere che ad esso non venisse data rilevanza alcuna dai prudentes"; i quali avrebbero preso in considerazione esclusivamente l'atto di colui che rinun¬cia a far valere una propria prerogativa, prescindendo del tutto dal comportamento del beneficiario della rinuncia, mi sembra, in qualche modo, voler dicotomizzare, travisandola, una vicenda che invece è in sé intrinsecamente unitaria. Come una res dubia, insomma, sussiste in quanto vi sono due o più parti portatrici di interessi, almeno potenziamente, in con¬flitto, così il (ri)assetto delle situazioni giuridiche coinvolte non può prescindere dal coinvolgimento di una di esse: in entrambi i casi, la corretta comprensione della dinamica delle vicenda non può prescindere dalla originaria e perdurante interrelazione delle. posizioni giuridiche contrapposte." Peraltro, la condivisibilità della tesi del Fino assume una rilevanza solo marginale ai fini del presente studio che si propone non di ricostruire le origini del feno¬meno transattivo quanto di indagarne alcuni profili essenziali alla luce dell'assetto che esso ricevette nelle fonti giuridiche a partire dall' età Severiana. Il presente lavoro, dunque, una volta (l'i) assunta come dato di partenza la sostanziale corrispondenza strutturale, tra transigerei transactio e transigere/transazione, aspira a ricostruire le caratte¬ristiche del fenomeno transattivo nel diritto romano quali posso¬no ricavarsi dall'analisi esegetica delle fonti: intento certamente già perseguito nella storia della nostra disciplina ma che, ritengo, possa oggi utilmente essere riproposto adottando una nuova pro¬spettiva, quella, di cui si è prima fatto cenno, che appunto intende tenere in adeguato conto la variegatezza degli schemi utilizzati per transigere in una con la peculiare ed unitaria funzionalità che connota il fenomeno, vale a dire l'eliminazione dell'incertezza, intesa però in una gamma di significati molto più ampia di quella attualmente accettata per la figura ad essa corrispondente nei mo¬derni ordinamenti. Tale angolo di visuale, mi sembra, perciò, giustificare il propo¬sito di contribuire ad una migliore comprensione della disciplina di quello che appare il principale strumento negoziale di amichevole composizione di interessi confliggenti, inserendoci in una ricca e feconda tradizioni di studi. È noto, infatti, che tramontate le sta¬gioni della pandettisitica e dell'interpolazionismo, di cui possono considerarsi epigoni, con specifico riferimento al nostro tema d'indagine, le monografie, rispettivamente, del Bertolini'" e della Peterlongo", alla transactio hanno dedicato importanti studi alcuni fra i più insigni romanisti contemporanei (Schiavone", Melillo 17 , Gallo 18 .Burdese!"), i quali hanno, tuttavia, posto la loro attenzione essenzialmente sull' aspetto sistematico, mirando ad inquadrare la transactio nell' ambito del più complessivo ed articolato fenomeno della negozialità romana. La consapevolezza di poter difficilmente aggiungere qualcosa . di veramente nuovo ad un profilo così ampiamente dibattuto ed analizzato, mi ha indotto ad orientare, prevalentemente, l'indagi¬ne verso la ricostruzione dei profili concreti del fenomeno, nella convinzione che l'adozione della prospettiva dianzi accennata, consenta di meglio comprendere il venir in essere e l'evoluzione di un modello giuridico di composizione volontaria, volto all'eli-minazione di qualunque forma di incertezza, storicamente afferma¬tosi in alternativa al ricorso all'autorità giudiziaria; con l'evidente necessità di approfondire, in relazione al concreto atteggiarsi de¬gli specifici interessi in conflitto, nell' ambito della plurisecolare esperienza giuridica romana, le significative differenze sussistenti tra i profili e le modalità di impiego dello strumento transattivo nell'epoca più risalente, nella quale il ricorso ad un giudice estraneo per dirimere una controversia è considerato un evento eccezionale, rispetto a periodi storici più recenti nei quali l'intervento del ma¬gistrato è (quanto meno da un punto di vista formale) volontaria¬mente e concordemente invocato dai contendenti ed è finalizzato essenzialmente ad impostare, con la collaborazione di questi ul¬timi, uno schema di giudizio che sarà poi applicato da un giudice non professionista; fino ad arrivare, da ultimo, ad una fase in cui l'autorità statuale ha tra i suoi connotati essenziali anche quello della decisione delle controversie, di norma interamente sottratta alla volontà dei litiganti. Il presente lavoro, dunque, si articola attraverso le seguenti tappe. Dapprima si ripercorrono i momenti salienti della evolu¬zione del fenomeno transattivo dalle origini fino al III-II sec. a.C.; successivamente, si analizzerà il processo di formazione ed iden¬tificazione di uno schema negoziale corrispondente al multiforme impiego del verbo transigere nelle fonti giuridiche, od anche let¬terarie, a nostra disposizione"; ci si soffermerà, poi, sul momento in cui la transactio venne a delinearsi quale figura autonoma di negozio bilaterale, non più assorbito nel fenomeno generale dei pacta, nonché sulla struttura e sugli elementi essenziali del nego¬zio transattivo; infine, si porrà attenzione ai conseguenti problemi della qualificazione rispetto ai c.d. nova negotia o contratti sine nomine e del suo regime processuale. Avendo come obiettivo primario un'inquadramento storico¬-sistematico di rappresentazione statica e formale del fenomeno indagato, si cercherà, altresì, di coglierne le caratteristiche che esso, nei diversi periodi della storia di Roma, venne ad assumere per tarsi all'evoluzione politica, economica e sociale di quella realtà.
2008
9788886836252
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