In questo lavoro l’autore si dedica in primo luogo a smontare il luogo comune di un Villa avanguardista da sempre, dimostrando (facilmente) come gli esordi del poeta siano senza dubbio segnati prima da influssi ermetici, ungarettiani e quasimodiani (Adolescenza, 1934) e poi da influenze marcatamente neo-realistiche (Oramai, 1947). L’avanguardia è stata dunque per Villa una conquista progressiva e maturata man mano che andava prendendo corpo il suo violento e radicale rifiuto verso tradizione, ordine costituito, establishment. [Peraltro, l’autore non manca di avanzare dubbi sulla datazione di alcuni testi che o tenderebbero ad accreditare precoci impennate avanguardistiche o risulterebbero, anche secondo la testimonianza del massimo esperto di Villa, Aldo Tagliaferri, “ritoccati” in epoche successive – ma la situazione filologica delle carte del poeta continua ad essere estremamente caotica). Tuttavia, quando Villa si mette a fare l’avanguardista lo fa sul serio e fino in fondo, dando vita a una delle più straordinarie macchine di “sfigurazione” linguistica del secondo Novecento. Nella sua carriera poetica si va comunque da una fase di proto-avanguardia (i testi di E ma dopo, già fortemente segnati da incoerenza sintattico-semantica) a quella più compiutamente avanguardistica, certamente inaugurata dalle 17 variazioni, dove esplodono per la prima volta quelle <<diavolerie fonetiche>> che Comizio 53 si limitava a minacciare, o promettere. Da questo punto in poi Villa si lancia in una serie di operazioni vertiginose sul linguaggio, che viene anatomizzato, sgretolato, parcellizzato, alla costante ricerca del vero obiettivo villiano, forse il suo unico tema occulto, il Mito dell’Origine, della riscoperta del primigenio, che compare nelle sue poesie sotto forme linguistiche isotopiche, quali <<ri-sorse>> (da sources), <<sorgente>>, <<seme>>, <<germoglio>>, ecc. In definitiva, si possono così descrivere i tre esiti estremi dell’entropia villiana: 1) una lingua smozzicata, ridotta davvero a brandelli, ai suoi minimi nuclei fonetici, d’ispirazione lettristica (dice bene Tagliaferri, che li definisce, con Isidore Isou, <<granelli di niente>>); 2) all’opposto, la costruzione di una lingua semi-inventata, rabelaisiana, una specie di grammelot comico e vulcanico; 3) di nuovo agli antipodi, una lingua ai limiti dell’afasia, dell’autismo cosmico. In fondo a questa deriva nichilistica c’è la chimera sognata e agognata da Villa: la felicità del nulla, la <<jouissance primordiale-“Ourgasme”>>, di cui ha scritto Jacqueline Risset. Alla fine, ciò che resta dell’incendio, a parere dell’autore, è solo il corpo dei testi, sonorità senza senso, pasticcio senza ricetta, corpo senz’anima: appunto, poesia senza poetica.

Emilio Villa: un poeta senza poetica?

PIETROPAOLI, Antonio
2007-01-01

Abstract

In questo lavoro l’autore si dedica in primo luogo a smontare il luogo comune di un Villa avanguardista da sempre, dimostrando (facilmente) come gli esordi del poeta siano senza dubbio segnati prima da influssi ermetici, ungarettiani e quasimodiani (Adolescenza, 1934) e poi da influenze marcatamente neo-realistiche (Oramai, 1947). L’avanguardia è stata dunque per Villa una conquista progressiva e maturata man mano che andava prendendo corpo il suo violento e radicale rifiuto verso tradizione, ordine costituito, establishment. [Peraltro, l’autore non manca di avanzare dubbi sulla datazione di alcuni testi che o tenderebbero ad accreditare precoci impennate avanguardistiche o risulterebbero, anche secondo la testimonianza del massimo esperto di Villa, Aldo Tagliaferri, “ritoccati” in epoche successive – ma la situazione filologica delle carte del poeta continua ad essere estremamente caotica). Tuttavia, quando Villa si mette a fare l’avanguardista lo fa sul serio e fino in fondo, dando vita a una delle più straordinarie macchine di “sfigurazione” linguistica del secondo Novecento. Nella sua carriera poetica si va comunque da una fase di proto-avanguardia (i testi di E ma dopo, già fortemente segnati da incoerenza sintattico-semantica) a quella più compiutamente avanguardistica, certamente inaugurata dalle 17 variazioni, dove esplodono per la prima volta quelle <> che Comizio 53 si limitava a minacciare, o promettere. Da questo punto in poi Villa si lancia in una serie di operazioni vertiginose sul linguaggio, che viene anatomizzato, sgretolato, parcellizzato, alla costante ricerca del vero obiettivo villiano, forse il suo unico tema occulto, il Mito dell’Origine, della riscoperta del primigenio, che compare nelle sue poesie sotto forme linguistiche isotopiche, quali <> (da sources), <>, <>, <>, ecc. In definitiva, si possono così descrivere i tre esiti estremi dell’entropia villiana: 1) una lingua smozzicata, ridotta davvero a brandelli, ai suoi minimi nuclei fonetici, d’ispirazione lettristica (dice bene Tagliaferri, che li definisce, con Isidore Isou, <>); 2) all’opposto, la costruzione di una lingua semi-inventata, rabelaisiana, una specie di grammelot comico e vulcanico; 3) di nuovo agli antipodi, una lingua ai limiti dell’afasia, dell’autismo cosmico. In fondo a questa deriva nichilistica c’è la chimera sognata e agognata da Villa: la felicità del nulla, la <>, di cui ha scritto Jacqueline Risset. Alla fine, ciò che resta dell’incendio, a parere dell’autore, è solo il corpo dei testi, sonorità senza senso, pasticcio senza ricetta, corpo senz’anima: appunto, poesia senza poetica.
2007
9788889969281
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/1868042
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