È opinione storiografica ormai consolidata che, alla conclusione della seconda guerra mondiale, il segnale più manifesto del malessere dell’economia italiana fosse rappresentato, più che dalle distruzioni di ordine materiale, dalla perdita del valore della lira. Dalla consultazione del prezioso materiale archivistico custodito presso l’Archivio Centrale dello Stato e dalla lettura analitica dei Verbali del Consiglio dei Ministri, abbiamo appurato come, per arginare la svalutazione, fin dai tempi del governo di Salerno si fosse iniziato a parlare del “cambio della moneta”, ovvero della sostituzione con biglietti nuovi della vecchie banconote in circolazione. In maniera più strutturata, nel febbraio 1945, il ministro delle Finanze Pesenti, avanzò un programma di stabilizzazione che aveva il suo ganglio proprio nella conversione dei segni monetari. Questa operazione, infatti, avrebbe messo ordine nella circolazione, riducendo il ritmo dell’inflazione, e avrebbe consentito altresì di snidare le illecite accumulazioni di ricchezza realizzate durante la guerra. Successivamente - nell’ambito dei governi a guida Parri e De Gasperi - paladino del progetto del cambio sarebbe stato il ministro delle Finanze, Scoccimarro, per il quale la riduzione della massa di circolante si sarebbe potuta ottenere in due modi: o attraverso il deposito forzoso di una parte dei biglietti presentati agli sportelli, o con strumenti fiscali, che, a loro volta, potevano consistere in un taglio percentuale netto di tutte le somme presentate al cambio, oppure in un’imposta straordinaria sul patrimonio. Momento topico del dibattito sul cambio – come emerge dalle carte archivistiche - va tuttavia individuato nel gennaio del ’46, allorquando, a poche settimane dall’insediamento del suo primo governo, De Gasperi, per discutere della materia, convocò una riunione di un “comitato ristretto di ministri”, allargata al governatore della Banca d’Italia, Einaudi. Questi, nel rimarcare gli ostacoli di natura tecnica e organizzativa, manifestò un’avversione di principio all’operazione di cambio, in quanto palesemente estranea alla sua cultura liberista, che per il risanamento avrebbe preferito far leva sulle manovre classiche dell’aumento delle entrate, del contenimento della spesa e del ricorso ai prestiti pubblici. A suffragare questa posizione, Corbino non mancò di enfatizzare, da parte sua, i contraccolpi degli accertamenti fiscali da effettuarsi ai fini dell’applicazione dell’imposta patrimoniale, che del cambio era il primo, naturale corollario. A questi rilievi, Scoccimarro replicò che con la rinuncia al cambio e alla patrimoniale, il governo non avrebbe fatto fronte alle esigenze della Tesoreria, rendendo così necessario un nuovo ricorso ai prestiti pubblici, con ricadute sulla politica degli investimenti e sulla stessa dinamica inflazionistica. Fu in questa fase del dibattito che Vanoni volle fornire il proprio contributo alla spinosa materia, con la pubblicazione del saggio Funzione e tecnica del cambio dei biglietti, con cui pose, come prima discriminante, quella inerente agli obiettivi del cambio, che potevano essere di semplice natura “statistica”, volti cioè ad accertare la massa monetaria in circolazione, o di “risanamento monetario”, volti cioè a intervenire sulla velocità di circolazione della moneta. Nel primo caso, il cambio poteva essere eseguito in base a schemi relativamente semplici, giacché si sarebbe provveduto semplicemente a sostituire biglietti nuovi a quelli vecchi. I “sub-obiettivi” sarebbero stati: 1) l’eliminazione dei biglietti falsi; 2) l’annullamento dei biglietti detenuti irregolarmente o portati all’estero; 3) lo smobilizzo delle giacenze monetarie tesaurizzate e rese inoperose da alcune categorie economiche. Il secondo obiettivo del cambio - di natura più direttamente anti-inflazionistica - era quello di sottrarre alla circolazione una parte della cartamoneta in possesso dei privati, obbligandoli a presentare in banca tutta la liquidità in loro possesso. Una parte di questo denaro sarebbe stata convertita in biglietti nuovi, mentre un’altra sarebbe stata iscritta in un conto inizialmente indisponibile, che sarebbe stato in un secondo momento sbloccato o riliquidato in titoli del debito pubblico. La riduzione della circolazione si sarebbe poi dovuta necessariamente accompagnare ad un contestuale riequilibrio dei conti pubblici, per far sì che lo Stato non fosse stato costretto, nel breve termine, a ricorrere per proprie esigenze all’emissione di nuova cartamoneta, alimentando così, per altra via, la corsa all’inflazione. Infine, occorreva inquadrare il cambio nel contesto dell’applicazione dell’imposta straordinaria sul patrimonio, resa urgente per sostenere le entrate del bilancio statale nella delicata fase di ripresa del gettito delle imposte ordinarie e di riequilibrio della spesa. Lacerato dai toni virulenti dello scontro politico (che abbiamo ricostruito analiticamente sempre sulla scorta dei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato), nel febbraio del ’47, con l’uscita di Scoccimarro dal terzo gabinetto DeGasperi, il progetto del cambio sarebbe stato definitivamente accantonato. Si chiudeva così, ma solo in sede politico istituzionale, la diatriba che aveva occupato fin dalla liberazione, senza soluzione di continuità, il centro della discussione sulla politica finanziaria del governo. Tuttavia, al di là dei suoi controversi esiti, il dibattito sul cambio della moneta si configura come un autentico “crocevia” della storia della ricostruzione, giacché la sua mancata attuazione avrebbe posto, di lì a breve, le basi per il varo delle misure deflazionistiche della “linea Einaudi” e delle altre misure di politica economica dettate da Giuseppe Pella, Gustavo Del Vecchio e Cesare Merzagora.

Il contributo di Ezio Vanoni al dibattito sulla questione monetaria del dopoguerra: tra pragmatismo ed eclettismo.

SANTILLO, Marco
2009-01-01

Abstract

È opinione storiografica ormai consolidata che, alla conclusione della seconda guerra mondiale, il segnale più manifesto del malessere dell’economia italiana fosse rappresentato, più che dalle distruzioni di ordine materiale, dalla perdita del valore della lira. Dalla consultazione del prezioso materiale archivistico custodito presso l’Archivio Centrale dello Stato e dalla lettura analitica dei Verbali del Consiglio dei Ministri, abbiamo appurato come, per arginare la svalutazione, fin dai tempi del governo di Salerno si fosse iniziato a parlare del “cambio della moneta”, ovvero della sostituzione con biglietti nuovi della vecchie banconote in circolazione. In maniera più strutturata, nel febbraio 1945, il ministro delle Finanze Pesenti, avanzò un programma di stabilizzazione che aveva il suo ganglio proprio nella conversione dei segni monetari. Questa operazione, infatti, avrebbe messo ordine nella circolazione, riducendo il ritmo dell’inflazione, e avrebbe consentito altresì di snidare le illecite accumulazioni di ricchezza realizzate durante la guerra. Successivamente - nell’ambito dei governi a guida Parri e De Gasperi - paladino del progetto del cambio sarebbe stato il ministro delle Finanze, Scoccimarro, per il quale la riduzione della massa di circolante si sarebbe potuta ottenere in due modi: o attraverso il deposito forzoso di una parte dei biglietti presentati agli sportelli, o con strumenti fiscali, che, a loro volta, potevano consistere in un taglio percentuale netto di tutte le somme presentate al cambio, oppure in un’imposta straordinaria sul patrimonio. Momento topico del dibattito sul cambio – come emerge dalle carte archivistiche - va tuttavia individuato nel gennaio del ’46, allorquando, a poche settimane dall’insediamento del suo primo governo, De Gasperi, per discutere della materia, convocò una riunione di un “comitato ristretto di ministri”, allargata al governatore della Banca d’Italia, Einaudi. Questi, nel rimarcare gli ostacoli di natura tecnica e organizzativa, manifestò un’avversione di principio all’operazione di cambio, in quanto palesemente estranea alla sua cultura liberista, che per il risanamento avrebbe preferito far leva sulle manovre classiche dell’aumento delle entrate, del contenimento della spesa e del ricorso ai prestiti pubblici. A suffragare questa posizione, Corbino non mancò di enfatizzare, da parte sua, i contraccolpi degli accertamenti fiscali da effettuarsi ai fini dell’applicazione dell’imposta patrimoniale, che del cambio era il primo, naturale corollario. A questi rilievi, Scoccimarro replicò che con la rinuncia al cambio e alla patrimoniale, il governo non avrebbe fatto fronte alle esigenze della Tesoreria, rendendo così necessario un nuovo ricorso ai prestiti pubblici, con ricadute sulla politica degli investimenti e sulla stessa dinamica inflazionistica. Fu in questa fase del dibattito che Vanoni volle fornire il proprio contributo alla spinosa materia, con la pubblicazione del saggio Funzione e tecnica del cambio dei biglietti, con cui pose, come prima discriminante, quella inerente agli obiettivi del cambio, che potevano essere di semplice natura “statistica”, volti cioè ad accertare la massa monetaria in circolazione, o di “risanamento monetario”, volti cioè a intervenire sulla velocità di circolazione della moneta. Nel primo caso, il cambio poteva essere eseguito in base a schemi relativamente semplici, giacché si sarebbe provveduto semplicemente a sostituire biglietti nuovi a quelli vecchi. I “sub-obiettivi” sarebbero stati: 1) l’eliminazione dei biglietti falsi; 2) l’annullamento dei biglietti detenuti irregolarmente o portati all’estero; 3) lo smobilizzo delle giacenze monetarie tesaurizzate e rese inoperose da alcune categorie economiche. Il secondo obiettivo del cambio - di natura più direttamente anti-inflazionistica - era quello di sottrarre alla circolazione una parte della cartamoneta in possesso dei privati, obbligandoli a presentare in banca tutta la liquidità in loro possesso. Una parte di questo denaro sarebbe stata convertita in biglietti nuovi, mentre un’altra sarebbe stata iscritta in un conto inizialmente indisponibile, che sarebbe stato in un secondo momento sbloccato o riliquidato in titoli del debito pubblico. La riduzione della circolazione si sarebbe poi dovuta necessariamente accompagnare ad un contestuale riequilibrio dei conti pubblici, per far sì che lo Stato non fosse stato costretto, nel breve termine, a ricorrere per proprie esigenze all’emissione di nuova cartamoneta, alimentando così, per altra via, la corsa all’inflazione. Infine, occorreva inquadrare il cambio nel contesto dell’applicazione dell’imposta straordinaria sul patrimonio, resa urgente per sostenere le entrate del bilancio statale nella delicata fase di ripresa del gettito delle imposte ordinarie e di riequilibrio della spesa. Lacerato dai toni virulenti dello scontro politico (che abbiamo ricostruito analiticamente sempre sulla scorta dei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato), nel febbraio del ’47, con l’uscita di Scoccimarro dal terzo gabinetto DeGasperi, il progetto del cambio sarebbe stato definitivamente accantonato. Si chiudeva così, ma solo in sede politico istituzionale, la diatriba che aveva occupato fin dalla liberazione, senza soluzione di continuità, il centro della discussione sulla politica finanziaria del governo. Tuttavia, al di là dei suoi controversi esiti, il dibattito sul cambio della moneta si configura come un autentico “crocevia” della storia della ricostruzione, giacché la sua mancata attuazione avrebbe posto, di lì a breve, le basi per il varo delle misure deflazionistiche della “linea Einaudi” e delle altre misure di politica economica dettate da Giuseppe Pella, Gustavo Del Vecchio e Cesare Merzagora.
2009
9788863420746
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