Nel romanzo Transit (1944 e 1948), Anna Seghers tematizza la condizione degli esuli transitanti da Marsiglia, in attesa della nave che li porti oltreoceano. Tuttavia, leggere Transit limitandosi alla situazione storica e politica che presenta significa mancare l’avventura simbolica, linguistica e letteraria che contestualmente offre. Transit è anche e soprattutto un romanzo sulla lingua poetica e sull’arte di narrare che fa dell’esilio una delle sue più efficaci allegorie. Sullo sfondo del saggio di Walter Benjamin Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskow (1936), è possibile interpretare la condizione sospesa e negativa degli esuli, come una di quelle situazioni proto-narrative che, in tempi antichi, anteriori all’affermazione dell’individuo borghese, caratterizzavano e favorivano il narrare. Il drammatico sradicamento dell’esule, soggetto espropriato di ogni connotazione e attività individualizzante, ricrea le condizioni affinché nella Marsiglia degli anni Quaranta si ricostituisca una temporanea comunità di narratori e ascoltatori e dalle ombre delle individualità negate risorga un defunto spirito epico. Contro le teorie sul realismo di Georg Lukacs, alle quali Seghers polemicamente si oppone nelle lettere che gli invia, il romanzo trasforma il dato storico-documentario in una funzione simbolica del racconto, che, alla fine, risulta essere l’unico, vero protagonista. Lo stesso narratore, del quale non si conosce né il nome, né, tranne brevi cenni, il passato, risulta non più che una funzione poetica. Il suo esilio come fatto storico è, sul piano allegorico, esilio dell’istanza autoriale, che, come tale, libera il movimento del linguaggio e gli consente di rispecchiarsi in ogni punto della finzione letteraria. Grazie a questa sua identità negativa o porosa, al modo scritto si aggiunge, nel testo, la simulazione di un modo orale del narrare che contribuisce a potenziare l’effetto epico. Un narratore ascolta le storie di altri narratori che riferisce nel racconto della propria, trova poi un libro incompiuto nel quale riconosce se stesso e la propria storia, mentre un’altra mano, a sua volta la trascrive, implicitamente aspettando che altri la continui. Il testo monta le storie, narrate e scritte, come delle scatole cinesi che si incastrano l’una nell’altra all’infinito. In Transit la lingua poetica celebra se stessa e la sua indipendenza da eventi finiti che invece attraversa come segni della sua infinita significazione.

L'esilio del narratore e il transito della lingua. «Transit» di Anna Seghers

GHERI, Paola
2009-01-01

Abstract

Nel romanzo Transit (1944 e 1948), Anna Seghers tematizza la condizione degli esuli transitanti da Marsiglia, in attesa della nave che li porti oltreoceano. Tuttavia, leggere Transit limitandosi alla situazione storica e politica che presenta significa mancare l’avventura simbolica, linguistica e letteraria che contestualmente offre. Transit è anche e soprattutto un romanzo sulla lingua poetica e sull’arte di narrare che fa dell’esilio una delle sue più efficaci allegorie. Sullo sfondo del saggio di Walter Benjamin Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskow (1936), è possibile interpretare la condizione sospesa e negativa degli esuli, come una di quelle situazioni proto-narrative che, in tempi antichi, anteriori all’affermazione dell’individuo borghese, caratterizzavano e favorivano il narrare. Il drammatico sradicamento dell’esule, soggetto espropriato di ogni connotazione e attività individualizzante, ricrea le condizioni affinché nella Marsiglia degli anni Quaranta si ricostituisca una temporanea comunità di narratori e ascoltatori e dalle ombre delle individualità negate risorga un defunto spirito epico. Contro le teorie sul realismo di Georg Lukacs, alle quali Seghers polemicamente si oppone nelle lettere che gli invia, il romanzo trasforma il dato storico-documentario in una funzione simbolica del racconto, che, alla fine, risulta essere l’unico, vero protagonista. Lo stesso narratore, del quale non si conosce né il nome, né, tranne brevi cenni, il passato, risulta non più che una funzione poetica. Il suo esilio come fatto storico è, sul piano allegorico, esilio dell’istanza autoriale, che, come tale, libera il movimento del linguaggio e gli consente di rispecchiarsi in ogni punto della finzione letteraria. Grazie a questa sua identità negativa o porosa, al modo scritto si aggiunge, nel testo, la simulazione di un modo orale del narrare che contribuisce a potenziare l’effetto epico. Un narratore ascolta le storie di altri narratori che riferisce nel racconto della propria, trova poi un libro incompiuto nel quale riconosce se stesso e la propria storia, mentre un’altra mano, a sua volta la trascrive, implicitamente aspettando che altri la continui. Il testo monta le storie, narrate e scritte, come delle scatole cinesi che si incastrano l’una nell’altra all’infinito. In Transit la lingua poetica celebra se stessa e la sua indipendenza da eventi finiti che invece attraversa come segni della sua infinita significazione.
2009
9788875751036
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/2296794
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