Dopo avere posto in rilievo, per un verso, la irrazionalità della scelta operata dal legislatore del 2001 (con l’art. 9 c. 4 d.l. 18 ottobre 2001 n. 374 conv. in l. 15 dicembre 2001 n. 438) di innestare nel corpo dell’art. 677 (invece che nel successivo art. 678) le previsioni relative all’obbligo di dichiarazione od elezione di domicilio, contestualmente alla domanda di misure alternative alla detenzione, nonché quelle concernenti l’obbligo di comunicare ogni mutamento di domicilio dichiarato o eletto (trattandosi di profili formali del procedimento di sorveglianza, incidenti sulla rituale instaurazione dello stesso e sul suo celere svolgimento, ma del tutto ininfluenti ai fini della determinazione della competenza ratione loci della magistratura di sorveglianza); per un altro verso, i precedenti normativi della disciplina espressa nell’art. 677 c.p.p. (è constatazione generalmente condivisa, in ambito dottrinale e giurisprudenziale, che la vigente regolamentazione codicistica della competenza per territorio della magistratura di sorveglianza affonda le radici nella normativa penitenziaria, nella sua versione più evoluta, scaturita c.d. legge Gozzini e frutto del progressivo ampliamento dell’ambito operativo della giurisdizione di sorveglianza ben oltre il primitivo nucleo del “giudizio sull’uomo in vinculis”), l’Autore procede all’analisi dei contenuti normativi della disposizione di cui all’art. 677 c.p.p., evidenziandone la ratio, l’ambito di operatività ed i principali aspetti applicativi. Quanto all’area di pertinenza della disciplina dettata dalla disposizione de qua, la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione è nel senso di ritenere che le regole ripartitive della competenza per territorio tra gli organi della magistratura di sorveglianza, come fissate nell’art. 677, hanno carattere generale, trovando perciò applicazione non solo nelle materie costituenti oggetto del procedimento di sorveglianza c.d. “tipico”, disciplinato dal successivo art. 678, ma altresì nei casi in cui l’organo giurisdizionale di sorveglianza decide de plano (ad esempio, in materia di permessi, di licenze e di ammissione al lavoro all’esterno) (cfr., ex plurimis, C I 12.7.1993, Bosco, CED 194854). L’autore evidenzia, tuttavia, come siffatta impostazione giurisprudenziale, volta a conferire una connotazione “generalizzante” alla disciplina dettata dall’art. 677, una valenza cioè estensibile a contesti decisionali estranei all’area di pertinenza dell’art. 678, non costituisca, in sede dottrinale, approdo interpretativo del tutto tranquillo. Per quanto riguarda, specificamente, l’analisi dei contenuti normativi dell’art. 677, si rileva come i criteri per l’individuazione dell’organo giurisdizionale - magistrato o tribunale - di sorveglianza territorialmente competente vengano dalla disposizione de qua differenziati a seconda della condizione (status detentionis o status libertatis) del soggetto nei cui confronti bisogna deliberare. Se il soggetto è detenuto (in espiazione di pena per la condanna di cui trattasi o per altra condanna) o internato (in esecuzione di misura di sicurezza), si segue il criterio del locus custodiae, in combinazione con quello dell’inizio del procedimento di sorveglianza, poiché competente a conoscere delle questioni allo stesso attribuite è il tribunale o il magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui il soggetto si trova all’atto della richiesta, della proposta o, comunque, dell’inizio di ufficio del procedimento (art. 677 c. 1). Si valorizza, per questa via, relativamente al procedimento di sorveglianza, la garanzia del giudice “naturale” (art. 25 c. 1 Cost.), da intendersi, non tanto come equivalente di giudice “precostituito per legge”, bensì nel più congruo significato di “giudice maggiormente idoneo ad assumere una determinata tipologia di decisioni sulla base di dati preesistenti all’intervento del legislatore”. In effetti, il criterio di competenza incentrato sul locus custodiae appare giustificato - chiarisce la rel. prog. prel., 149 - dall’esigenza che sia l’organo giudiziario più ad immediato contatto con l’istituto in cui l’interessato conduce la vita di condannato, o sottoposto a misura di sicurezza, a valutare il suo comportamento carcerario e i progressivi risultati del trattamento penitenziario. In questa prospettiva, si è andata consolidando in giurisprudenza una linea ermeneutica tesa a valorizzare, più che la lettera, la ratio della previsione espressa nel c. 1 dell’art. 677, imperniata sullo stringente collegamento tra il criterio attributivo di competenza territoriale e la valutazione dei risultati del trattamento intramurario. L’espressione “si trova” contenuta nel c. 1 - ha affermato la Suprema Corte - va intesa nel senso di un rapporto caratterizzato da “apprezzabile stabilità” fra il detenuto o l’internato e l’istituto penitenziario, e tale può considerarsi solo il rapporto che consenta, se non l’instaurazione di un trattamento, quanto meno l’esame, ad esso prodromico, della personalità del detenuto. Non può pertanto attribuirsi rilevanza, ai fini della individuazione dell’organo di sorveglianza competente ratione loci, alle permanenze in carcere del tutto occasionali; né la determinazione della competenza può dipendere da un criterio meramente burocratico, quale quello della sede assegnata dall’amministrazione penitenziaria, in quanto occorre verificare, caso per caso, se la permanenza, per qualsiasi motivo, in istituto diverso da quello di assegnazione ministeriale abbia quel minimo di stabilità che consenta l’esame personologico del detenuto. E tuttavia, l’evoluzione normativa dell’ordinamento penitenziario ha comportato che, diversamente dal passato, la maggior parte delle decisioni che la magistratura di sorveglianza è chiamata ad assumere riguardi ora condannati non privati della libertà personale. In tal caso, non potendo evidentemente operare il criterio del locus custodiae, l’art. 677 c. 2 dispone, in primis, che territorialmente competente è l’organo di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo dove l’interessato ha la residenza o il domicilio; nell’impossibilità di determinare sia l’una che l’altro, la competenza spetterà al magistrato o al tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza che ha inflitto la condanna o ha applicato la misura di sicurezza; in presenza di più sentenze divenute irrevocabili, la competenza sarà dell’organo di sorveglianza del luogo di pronuncia della sentenza che per ultima ha acquisito autorità di cosa giudicata. Trattasi di previsioni che, diversamente da quelle disciplinanti il criterio di competenza territoriale relativo al soggetto in vinculis, non brillano per la loro assolutezza, atteso che la operatività sia del criterio principale (competenza del luogo della residenza o del domicilio) sia dei criteri sussidiari (nell’ordine, competenza del luogo del processo e competenza del luogo dell’ultimo giudicato) è subordinata alla condizione che il legislatore non stabilisca, in via specifica, un diverso criterio di competenza territoriale. Procedendo all’analisi della competenza nell’ipotesi di soggetto in stato di libertà, l’Autore si sofferma approfonditamente sia sul criterio del locus domicilii sia sui criteri, sussidiari, del luogo del processo e del luogo dell’ultimo giudicato, evidenziando i diversi e non del tutto lineari orientamenti interpretativi emersi, al riguardo, in dottrina e in giurisprudenza. Passa poi a considerare le deroghe ai criteri generali di competenza territoriale, che lo stesso legislatore pone in materia di misure alternative alla detenzione; in ordine alle sanzioni sostitutive ed alla conversione delle pene pecuniarie; nei procedimenti riguardanti i soggetti ammessi ad un programma di protezione; infine, in ordine al reclamo del detenuto “differenziato” ai sensi dell’art. 41 bis ord. penit. La parte conclusiva del commento è riservata all’analisi delle conseguenze dell’inosservanza delle regole di competenza fissate nell’art. 678 c.p.p. Al riguardo, si pone in evidenza come, in mancanza di una specifica disciplina per l’incompetenza territoriale del tribunale o del magistrato di sorveglianza, diventi inevitabile fare ricorso alle regole generali dettate dal codice di rito in tema di incompetenza ratione loci, e, in particolare, all’art. 21 c. 2, che definisce i limiti temporali di rilevabilità del vizio.

Commento all'art. 677

DARAIO, Girolamo
2010-01-01

Abstract

Dopo avere posto in rilievo, per un verso, la irrazionalità della scelta operata dal legislatore del 2001 (con l’art. 9 c. 4 d.l. 18 ottobre 2001 n. 374 conv. in l. 15 dicembre 2001 n. 438) di innestare nel corpo dell’art. 677 (invece che nel successivo art. 678) le previsioni relative all’obbligo di dichiarazione od elezione di domicilio, contestualmente alla domanda di misure alternative alla detenzione, nonché quelle concernenti l’obbligo di comunicare ogni mutamento di domicilio dichiarato o eletto (trattandosi di profili formali del procedimento di sorveglianza, incidenti sulla rituale instaurazione dello stesso e sul suo celere svolgimento, ma del tutto ininfluenti ai fini della determinazione della competenza ratione loci della magistratura di sorveglianza); per un altro verso, i precedenti normativi della disciplina espressa nell’art. 677 c.p.p. (è constatazione generalmente condivisa, in ambito dottrinale e giurisprudenziale, che la vigente regolamentazione codicistica della competenza per territorio della magistratura di sorveglianza affonda le radici nella normativa penitenziaria, nella sua versione più evoluta, scaturita c.d. legge Gozzini e frutto del progressivo ampliamento dell’ambito operativo della giurisdizione di sorveglianza ben oltre il primitivo nucleo del “giudizio sull’uomo in vinculis”), l’Autore procede all’analisi dei contenuti normativi della disposizione di cui all’art. 677 c.p.p., evidenziandone la ratio, l’ambito di operatività ed i principali aspetti applicativi. Quanto all’area di pertinenza della disciplina dettata dalla disposizione de qua, la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione è nel senso di ritenere che le regole ripartitive della competenza per territorio tra gli organi della magistratura di sorveglianza, come fissate nell’art. 677, hanno carattere generale, trovando perciò applicazione non solo nelle materie costituenti oggetto del procedimento di sorveglianza c.d. “tipico”, disciplinato dal successivo art. 678, ma altresì nei casi in cui l’organo giurisdizionale di sorveglianza decide de plano (ad esempio, in materia di permessi, di licenze e di ammissione al lavoro all’esterno) (cfr., ex plurimis, C I 12.7.1993, Bosco, CED 194854). L’autore evidenzia, tuttavia, come siffatta impostazione giurisprudenziale, volta a conferire una connotazione “generalizzante” alla disciplina dettata dall’art. 677, una valenza cioè estensibile a contesti decisionali estranei all’area di pertinenza dell’art. 678, non costituisca, in sede dottrinale, approdo interpretativo del tutto tranquillo. Per quanto riguarda, specificamente, l’analisi dei contenuti normativi dell’art. 677, si rileva come i criteri per l’individuazione dell’organo giurisdizionale - magistrato o tribunale - di sorveglianza territorialmente competente vengano dalla disposizione de qua differenziati a seconda della condizione (status detentionis o status libertatis) del soggetto nei cui confronti bisogna deliberare. Se il soggetto è detenuto (in espiazione di pena per la condanna di cui trattasi o per altra condanna) o internato (in esecuzione di misura di sicurezza), si segue il criterio del locus custodiae, in combinazione con quello dell’inizio del procedimento di sorveglianza, poiché competente a conoscere delle questioni allo stesso attribuite è il tribunale o il magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui il soggetto si trova all’atto della richiesta, della proposta o, comunque, dell’inizio di ufficio del procedimento (art. 677 c. 1). Si valorizza, per questa via, relativamente al procedimento di sorveglianza, la garanzia del giudice “naturale” (art. 25 c. 1 Cost.), da intendersi, non tanto come equivalente di giudice “precostituito per legge”, bensì nel più congruo significato di “giudice maggiormente idoneo ad assumere una determinata tipologia di decisioni sulla base di dati preesistenti all’intervento del legislatore”. In effetti, il criterio di competenza incentrato sul locus custodiae appare giustificato - chiarisce la rel. prog. prel., 149 - dall’esigenza che sia l’organo giudiziario più ad immediato contatto con l’istituto in cui l’interessato conduce la vita di condannato, o sottoposto a misura di sicurezza, a valutare il suo comportamento carcerario e i progressivi risultati del trattamento penitenziario. In questa prospettiva, si è andata consolidando in giurisprudenza una linea ermeneutica tesa a valorizzare, più che la lettera, la ratio della previsione espressa nel c. 1 dell’art. 677, imperniata sullo stringente collegamento tra il criterio attributivo di competenza territoriale e la valutazione dei risultati del trattamento intramurario. L’espressione “si trova” contenuta nel c. 1 - ha affermato la Suprema Corte - va intesa nel senso di un rapporto caratterizzato da “apprezzabile stabilità” fra il detenuto o l’internato e l’istituto penitenziario, e tale può considerarsi solo il rapporto che consenta, se non l’instaurazione di un trattamento, quanto meno l’esame, ad esso prodromico, della personalità del detenuto. Non può pertanto attribuirsi rilevanza, ai fini della individuazione dell’organo di sorveglianza competente ratione loci, alle permanenze in carcere del tutto occasionali; né la determinazione della competenza può dipendere da un criterio meramente burocratico, quale quello della sede assegnata dall’amministrazione penitenziaria, in quanto occorre verificare, caso per caso, se la permanenza, per qualsiasi motivo, in istituto diverso da quello di assegnazione ministeriale abbia quel minimo di stabilità che consenta l’esame personologico del detenuto. E tuttavia, l’evoluzione normativa dell’ordinamento penitenziario ha comportato che, diversamente dal passato, la maggior parte delle decisioni che la magistratura di sorveglianza è chiamata ad assumere riguardi ora condannati non privati della libertà personale. In tal caso, non potendo evidentemente operare il criterio del locus custodiae, l’art. 677 c. 2 dispone, in primis, che territorialmente competente è l’organo di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo dove l’interessato ha la residenza o il domicilio; nell’impossibilità di determinare sia l’una che l’altro, la competenza spetterà al magistrato o al tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza che ha inflitto la condanna o ha applicato la misura di sicurezza; in presenza di più sentenze divenute irrevocabili, la competenza sarà dell’organo di sorveglianza del luogo di pronuncia della sentenza che per ultima ha acquisito autorità di cosa giudicata. Trattasi di previsioni che, diversamente da quelle disciplinanti il criterio di competenza territoriale relativo al soggetto in vinculis, non brillano per la loro assolutezza, atteso che la operatività sia del criterio principale (competenza del luogo della residenza o del domicilio) sia dei criteri sussidiari (nell’ordine, competenza del luogo del processo e competenza del luogo dell’ultimo giudicato) è subordinata alla condizione che il legislatore non stabilisca, in via specifica, un diverso criterio di competenza territoriale. Procedendo all’analisi della competenza nell’ipotesi di soggetto in stato di libertà, l’Autore si sofferma approfonditamente sia sul criterio del locus domicilii sia sui criteri, sussidiari, del luogo del processo e del luogo dell’ultimo giudicato, evidenziando i diversi e non del tutto lineari orientamenti interpretativi emersi, al riguardo, in dottrina e in giurisprudenza. Passa poi a considerare le deroghe ai criteri generali di competenza territoriale, che lo stesso legislatore pone in materia di misure alternative alla detenzione; in ordine alle sanzioni sostitutive ed alla conversione delle pene pecuniarie; nei procedimenti riguardanti i soggetti ammessi ad un programma di protezione; infine, in ordine al reclamo del detenuto “differenziato” ai sensi dell’art. 41 bis ord. penit. La parte conclusiva del commento è riservata all’analisi delle conseguenze dell’inosservanza delle regole di competenza fissate nell’art. 678 c.p.p. Al riguardo, si pone in evidenza come, in mancanza di una specifica disciplina per l’incompetenza territoriale del tribunale o del magistrato di sorveglianza, diventi inevitabile fare ricorso alle regole generali dettate dal codice di rito in tema di incompetenza ratione loci, e, in particolare, all’art. 21 c. 2, che definisce i limiti temporali di rilevabilità del vizio.
2010
9788821731877
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