Post-fazione: per un tifo non violento di Laura Clarizia Così come sottolinea Antonio Montuori nelle sue Riflessioni conclusive, dall’analisi dei dati emersi in questa ricerca resta confermata l’ipotesi iniziale circa il ruolo potenzialmente positivo dello sport (e noi qui aggiungiamo: del gioco, da cui deriva, e del tifo, verso cui tende), nello svolgere una sorta di funzione protettiva rispetto all’assunzione di atteggiamenti/comportamenti violenti, in qualche modo connessi ad un’adesione totale, esclusiva e acritica ad un ideale di gruppo. Questa funzione positiva, tuttavia, non è tanto legata alla semplice pratica sportiva, quanto alla modalità in cui viene vissuta, così come si evidenzia nella differenziazione significativa delle risposte tra coloro che dichiarano un atteggiamento puramente dilettantistico, più vicino ad una dimensione liberamente ludica dell’attività sportiva, e coloro che vivono lo sport con un atteggiamento professionale o semi-professionale. Dall’analisi dei dati raccolti, comunque, si evidenzia una chiara correlazione tra sport praticato e una migliore capacità di gestire le emozioni negative, insieme a una maggiore capacità di resistere alle pressioni di gruppo e a una maggiore propensione ad intraprendere e mantenere relazioni sociali. In questo senso, lo sport e il tifo ad esso connesso, pur conservando la propria implicita caratteristica di confronto competitivo (personale e di gruppo), possono concorrere a definire identità distinte, ma non esasperatamente contrapposte, oltre lo spazio della competizione ludica e simbolica. Dalle analisi emerge ancora che nei gruppi strutturati sportivi, più che in quelli informali, viene favorita la riorganizzazione del sé, emerge sostegno allo sviluppo cognitivo, si acquisiscono competenze sociali. Dalle interviste biografiche raccolte risulta chiaro che per gli adolescenti è molto più significativo essere apprezzati dai coetanei che amati dai genitori; la stima dei coetanei è più esplicitamente ricercata rispetto all’amore dei genitori (che viene considerato quasi sempre scontato). La ricerca di queste gratificazioni, inoltre, avviene secondo modalità diverse: nello scambio di confidenze, ma anche nella dimostrazione di abilità, capacità, competenze. Lo sport praticato diventa così uno strumento importante per mettersi in mostra, per suscitare ammirazione attraverso l’esplicitazione delle capacità fisiche e le abilità tecniche e, di conseguenza, costruire (e offrire all’esterno) un’immagine di sé adeguata, positiva, vincente. Dalla correlazione dei dati raccolti, secondo le diverse tipologie previste, è emerso in modo significativo la presenza nei giovani praticanti uno sport (a livello continuo, pre-agonistico o agonistico) di dimensioni socio-affettive fondamentali quali: la capacità di superare le frustrazioni anche in assenza di apprezzamento sociale; la capacità di evitare lo scoraggiamento in caso di avversità, di superare la rabbia e/o mantenere il controllo emotivo in caso di stress; anche la capacità di superare l’irritazione per i torti subiti. I giovani atleti, inoltre, si dichiarano maggiormente in grado di resistere alle pressioni di gruppo su comportamenti rischiosi o delinquenziali; riescono ad esprimere più liberamente le proprie opinioni; sono portati ad iniziare nuove amicizie e ad avere un atteggiamento più aperto e progettuale nei vari contesti esistenziali (scuola, amici, relazioni sentimentali) rispetto ai coetanei non sportivi e solo tifosi. Così, se l’identità personale è sempre l’esito di procedurali contaminazioni tra vissuti personali (intrapsichici) e interpersonali (interazioni sociali), l’appartenenza a contesti di pratica di attività sportive, durante l’adolescenza, sembra costituire un elemento di rinforzo dell’autonomia e di matutazione psico-emotiva e sociale. Lo sport, dunque, sembra poter svolgere un ruolo fortemente positivo, ma solo in relazione al contesto in cui viene proposto: un contesto che può essere definito educativo se la dimensione corporea ed emotiva, nelle varie forme ludiche e sportive, diventa una via di accesso alla conoscenza, alle relazioni umane, all’espressione e comunicazione degli stati emotivi, alla strutturazione di relazioni empatiche (Sibilio, 2005, 2007). È l’educazione alla competizione, al confronto, alla sfida, al riconoscimento reciproco delle regole, all’accettazione del limite, insieme all’impegno concreto e realistico per superarlo, che diventa contesto educante. Il motivo per cui riteniamo degna di attenzione la ricerca che qui presentiamo è solo in parte legato all’esito dei risultati dell’indagine empirica, che pure ci sembrano interessanti. Ciò che ci sembra particolarmente produttivo è la possibilità che anche i dati emersi, letti e interpretati all’interno dell’ipotesi che ha fatto da fil rouge in tutta la ricerca, possano sostenere la proposta di un innovativo e capillare progetto educativo di prevenzione (di primo, secondo e terzo livello) dei sempre più gravi episodi di violenza connessi al tifo, calcistico, in particolare. Ciò che ci sembra pedagogicamente produttivo è la possibilità di avviare concretamente, in tutti i luoghi di educazione-formazione (infantile e giovanile) e di aggregazione sportiva (in una prospettiva di lifelong learning), un progetto di intervento preventivo/educativo/rieducativo rispetto alle degenerazioni comportamentali in vario modo correlabili all’adesione, totalizzante ed esclusiva, ad un ideale sportivo. Un programma di intervento preventivo capillare attraverso il quale favorire una crescente e allargata consapevolezza dei percorsi attraverso i quali ognuno costruisce la propria identità, un’alfabetizzazione, per così dire, identitaria, all’interno di un progetto di educazione relazionale (Clarizia, 2000a, 2002a, 2005), può porsi come possibile concreta risposta della pedagogia a un bisogno sociale emergente e non tutto risolvibile all’interno di leggi e decreti ristrettivi.

Post-fazione: per un tifo non violento, in "Costruttori d'identità. Gioco, Sport, Tifo"

CLARIZIA, Laura
2008-01-01

Abstract

Post-fazione: per un tifo non violento di Laura Clarizia Così come sottolinea Antonio Montuori nelle sue Riflessioni conclusive, dall’analisi dei dati emersi in questa ricerca resta confermata l’ipotesi iniziale circa il ruolo potenzialmente positivo dello sport (e noi qui aggiungiamo: del gioco, da cui deriva, e del tifo, verso cui tende), nello svolgere una sorta di funzione protettiva rispetto all’assunzione di atteggiamenti/comportamenti violenti, in qualche modo connessi ad un’adesione totale, esclusiva e acritica ad un ideale di gruppo. Questa funzione positiva, tuttavia, non è tanto legata alla semplice pratica sportiva, quanto alla modalità in cui viene vissuta, così come si evidenzia nella differenziazione significativa delle risposte tra coloro che dichiarano un atteggiamento puramente dilettantistico, più vicino ad una dimensione liberamente ludica dell’attività sportiva, e coloro che vivono lo sport con un atteggiamento professionale o semi-professionale. Dall’analisi dei dati raccolti, comunque, si evidenzia una chiara correlazione tra sport praticato e una migliore capacità di gestire le emozioni negative, insieme a una maggiore capacità di resistere alle pressioni di gruppo e a una maggiore propensione ad intraprendere e mantenere relazioni sociali. In questo senso, lo sport e il tifo ad esso connesso, pur conservando la propria implicita caratteristica di confronto competitivo (personale e di gruppo), possono concorrere a definire identità distinte, ma non esasperatamente contrapposte, oltre lo spazio della competizione ludica e simbolica. Dalle analisi emerge ancora che nei gruppi strutturati sportivi, più che in quelli informali, viene favorita la riorganizzazione del sé, emerge sostegno allo sviluppo cognitivo, si acquisiscono competenze sociali. Dalle interviste biografiche raccolte risulta chiaro che per gli adolescenti è molto più significativo essere apprezzati dai coetanei che amati dai genitori; la stima dei coetanei è più esplicitamente ricercata rispetto all’amore dei genitori (che viene considerato quasi sempre scontato). La ricerca di queste gratificazioni, inoltre, avviene secondo modalità diverse: nello scambio di confidenze, ma anche nella dimostrazione di abilità, capacità, competenze. Lo sport praticato diventa così uno strumento importante per mettersi in mostra, per suscitare ammirazione attraverso l’esplicitazione delle capacità fisiche e le abilità tecniche e, di conseguenza, costruire (e offrire all’esterno) un’immagine di sé adeguata, positiva, vincente. Dalla correlazione dei dati raccolti, secondo le diverse tipologie previste, è emerso in modo significativo la presenza nei giovani praticanti uno sport (a livello continuo, pre-agonistico o agonistico) di dimensioni socio-affettive fondamentali quali: la capacità di superare le frustrazioni anche in assenza di apprezzamento sociale; la capacità di evitare lo scoraggiamento in caso di avversità, di superare la rabbia e/o mantenere il controllo emotivo in caso di stress; anche la capacità di superare l’irritazione per i torti subiti. I giovani atleti, inoltre, si dichiarano maggiormente in grado di resistere alle pressioni di gruppo su comportamenti rischiosi o delinquenziali; riescono ad esprimere più liberamente le proprie opinioni; sono portati ad iniziare nuove amicizie e ad avere un atteggiamento più aperto e progettuale nei vari contesti esistenziali (scuola, amici, relazioni sentimentali) rispetto ai coetanei non sportivi e solo tifosi. Così, se l’identità personale è sempre l’esito di procedurali contaminazioni tra vissuti personali (intrapsichici) e interpersonali (interazioni sociali), l’appartenenza a contesti di pratica di attività sportive, durante l’adolescenza, sembra costituire un elemento di rinforzo dell’autonomia e di matutazione psico-emotiva e sociale. Lo sport, dunque, sembra poter svolgere un ruolo fortemente positivo, ma solo in relazione al contesto in cui viene proposto: un contesto che può essere definito educativo se la dimensione corporea ed emotiva, nelle varie forme ludiche e sportive, diventa una via di accesso alla conoscenza, alle relazioni umane, all’espressione e comunicazione degli stati emotivi, alla strutturazione di relazioni empatiche (Sibilio, 2005, 2007). È l’educazione alla competizione, al confronto, alla sfida, al riconoscimento reciproco delle regole, all’accettazione del limite, insieme all’impegno concreto e realistico per superarlo, che diventa contesto educante. Il motivo per cui riteniamo degna di attenzione la ricerca che qui presentiamo è solo in parte legato all’esito dei risultati dell’indagine empirica, che pure ci sembrano interessanti. Ciò che ci sembra particolarmente produttivo è la possibilità che anche i dati emersi, letti e interpretati all’interno dell’ipotesi che ha fatto da fil rouge in tutta la ricerca, possano sostenere la proposta di un innovativo e capillare progetto educativo di prevenzione (di primo, secondo e terzo livello) dei sempre più gravi episodi di violenza connessi al tifo, calcistico, in particolare. Ciò che ci sembra pedagogicamente produttivo è la possibilità di avviare concretamente, in tutti i luoghi di educazione-formazione (infantile e giovanile) e di aggregazione sportiva (in una prospettiva di lifelong learning), un progetto di intervento preventivo/educativo/rieducativo rispetto alle degenerazioni comportamentali in vario modo correlabili all’adesione, totalizzante ed esclusiva, ad un ideale sportivo. Un programma di intervento preventivo capillare attraverso il quale favorire una crescente e allargata consapevolezza dei percorsi attraverso i quali ognuno costruisce la propria identità, un’alfabetizzazione, per così dire, identitaria, all’interno di un progetto di educazione relazionale (Clarizia, 2000a, 2002a, 2005), può porsi come possibile concreta risposta della pedagogia a un bisogno sociale emergente e non tutto risolvibile all’interno di leggi e decreti ristrettivi.
2008
9788895154589
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/3137452
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