Gli anni ’20 si configurano come un punto di svolta nella carriera di Virginia Woolf. Vedono infatti la pubblicazione dei romanzi che l’hanno resa famosa, quelli nei quali si esprime con una voce personale e riconoscibile, ma sono anche gli anni in cui la scrittrice s’interroga sul romanzo che va mettendo a punto in una serie di saggi. Se letti in parallelo, “Modern Fiction”, “Mr Bennett and Mrs Brown”, “The Narrow Bridge of Art”, “Phases of Fiction” costituiscono una dichiarazione di poetica complessa e articolata, in qualche modo sempre in evoluzione, lontana da ogni dogmatismo e apodittica certezza. Nel definire i contenuti e la forma di un genere che sempre più nel futuro ingloberà spunti poetici, drammatici e pittorici differenziandosi da se stesso tanto da dovere essere rinominato, Woolf si colloca sulla scena letteraria del primo Novecento in tensione con le altre tendenze che la animano: il rifiuto della tradizione edoardiana, che la qualifica come indubitabilmente ‘modernista’, si accompagna alle perplessità verso la scrittura innovativa dei contemporanei come Joyce ed Eliot, a cui, pur nel comune distacco dal ‘vecchio’, non può assimilarsi con leggerezza. È sulla relazione con il lettore che si gioca la partita della sua problematica affiliazione al nuovo: se Woolf gli chiede di collaborare con lo scrittore al rinnovamento del romanzo rinunciando alle facili soddisfazioni a cui il realismo di matrice ottocentesca lo ha abituato, si propone, da parte sua, di accoglierlo e metterlo a suo agio proprio come gli autori che l’hanno preceduta sapevano fare, da attenta padrona di casa. La rifondazione della narrativa, dunque, non può prescindere dalla ricerca di un codice condiviso di ‘buone maniere’ - quelle stesse ‘buone maniere’ di cui Pound si dichiara perentoriamente arcistufo – che consenta all’autore di comunicare con il pubblico senza venire meno al compito di dare piena espressione alla sua visione.

"A common ground between us". L'arte del romanzo e le buone maniere nei saggi di Virginia Woolf

Flora de Giovanni
2017-01-01

Abstract

Gli anni ’20 si configurano come un punto di svolta nella carriera di Virginia Woolf. Vedono infatti la pubblicazione dei romanzi che l’hanno resa famosa, quelli nei quali si esprime con una voce personale e riconoscibile, ma sono anche gli anni in cui la scrittrice s’interroga sul romanzo che va mettendo a punto in una serie di saggi. Se letti in parallelo, “Modern Fiction”, “Mr Bennett and Mrs Brown”, “The Narrow Bridge of Art”, “Phases of Fiction” costituiscono una dichiarazione di poetica complessa e articolata, in qualche modo sempre in evoluzione, lontana da ogni dogmatismo e apodittica certezza. Nel definire i contenuti e la forma di un genere che sempre più nel futuro ingloberà spunti poetici, drammatici e pittorici differenziandosi da se stesso tanto da dovere essere rinominato, Woolf si colloca sulla scena letteraria del primo Novecento in tensione con le altre tendenze che la animano: il rifiuto della tradizione edoardiana, che la qualifica come indubitabilmente ‘modernista’, si accompagna alle perplessità verso la scrittura innovativa dei contemporanei come Joyce ed Eliot, a cui, pur nel comune distacco dal ‘vecchio’, non può assimilarsi con leggerezza. È sulla relazione con il lettore che si gioca la partita della sua problematica affiliazione al nuovo: se Woolf gli chiede di collaborare con lo scrittore al rinnovamento del romanzo rinunciando alle facili soddisfazioni a cui il realismo di matrice ottocentesca lo ha abituato, si propone, da parte sua, di accoglierlo e metterlo a suo agio proprio come gli autori che l’hanno preceduta sapevano fare, da attenta padrona di casa. La rifondazione della narrativa, dunque, non può prescindere dalla ricerca di un codice condiviso di ‘buone maniere’ - quelle stesse ‘buone maniere’ di cui Pound si dichiara perentoriamente arcistufo – che consenta all’autore di comunicare con il pubblico senza venire meno al compito di dare piena espressione alla sua visione.
2017
978-88-15-27357-4
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