Il commento è volto a cogliere la ragion d’essere, la portata ed i principali aspetti applicativi della disciplina del procedimento di sorveglianza, espressa nell’art. 678 c.p.p. L’Autore muove dalla considerazione secondo cui il c.d. principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nella Carta costituzionale, rimasto in “ibernazione” per quasi un trentennio, trova la sua prima, organica attuazione, a livello di legislazione ordinaria, con la riforma penitenziaria del 1975, che segna il pieno superamento della concezione tradizionale dell’esecuzione della pena come fenomeno “di pura amministrazione, dominata dall’imperio della mera discrezionalità”, con il conseguente passaggio dall’amministrazione alla giurisdizione. Alla base della svolta culturale realizzatasi con la riforma penitenziaria del 1975 v’è l’acquisita consapevolezza che, nell’ambito delle coordinate tracciate dall’art. 27 c. 3 Cost., la pena inflitta con la sentenza di condanna non è più un qualcosa di immodificabile, potendo andare soggetta, nel corso della sua esecuzione, ad attenuazioni di carattere quantitativo e/o qualitativo in funzione riabilitativa del condannato, il quale deve poter riacquistare la libertà non appena si accerti la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per la sua liberazione. Tale accertamento, concernendo un diritto soggettivo, non può essere demandato ad un organo amministrativo, ma deve essere compiuto da un organo giudiziario nel contesto di un procedimento giurisdizionale, giacché solo un simile contesto si presta ad assicurare variazioni (modali e quantitative) della pena ossequiose del principio di legalità. In quest’ottica, la l. n. 354/1975 riserva alla magistratura di sorveglianza un ruolo di indubbio rilievo, procedendo, innanzitutto, ad uno “sdoppiamento” del “giudice penitenziario” in due organi giusdicenti (il “magistrato di sorveglianza” - già “giudice di sorveglianza” - a struttura monocratica e la neonata “sezione di sorveglianza”, a struttura collegiale); la magistratura di sorveglianza, inoltre, viene resa “specializzata” (non solo per la coesistenza, nell’organo collegiale, di tecnici del diritto con specialisti in problemi caratteriologici e clinici, ma anche perché il magistrato addetto all’ufficio di sorveglianza - differentemente dal passato - non deve essere adibito ad altre funzioni giudiziarie) ed investita di una pluralità di nuove competenze. Ma, al di là della ridefinizione della struttura e delle funzioni della magistratura di sorveglianza, ciò che più nitidamente esprime gli orientamenti del nuovo ordinamento penitenziario è la scelta di creare un apposito rito - il “procedimento di sorveglianza”, ben distinto dal modello procedimentale dei c.d. “incidenti di esecuzione” regolato dall’art. 630 c.p.p. 1930 - per l’esercizio, da parte degli organi di sorveglianza, della loro “giurisdizione rieducativa”; rito la cui disciplina subirà, negli anni, numerose modifiche (per effetto della l. 12 gennaio 1977 n. 1 e soprattutto della l. 10 ottobre 1986 n. 663), nell’intento razionalizzatore di una reductio ad unitatem - sotto il paradigma del rito di cui agli artt. 71 ss. ord. penit. - dei disordinati e spesso incoerenti moduli procedimentali fino ad allora sorti nell’area caotica della giurisdizione di sorveglianza. Si dovrà, tuttavia, attendere l’emanazione del nuovo codice di procedura penale per una radicale revisione dell’assetto giurisdizionale esecutivo. Con l’avvento del codice c.d. Vassalli, infatti, la regolamentazione del procedimento di sorveglianza, estrapolata dal contesto penitenziario ed inserita in quello codicistico (art. 678), viene uniformata - sia pure con qualche variante - a quella del procedimento di esecuzione (art. 666), operazione che, sotto il profilo tecnico, si sostanzia nel rinvio, contenuto nell’art. 678 c. 1, al modello regolato dall’art. 666. Nel porre in rilievo l’importanza della scelta, maturata in sede di elaborazione del codice del 1988, di unificazione del modello processuale per la giurisdizione esecutiva, l’Autore osserva come, al di là del mutamento della tradizionale sedes materiae, la regolamentazione del procedimento di sorveglianza operata dal codice Vassalli avvenga all’insegna della sostanziale continuità con il passato, risultando innegabilmente plasmata sulla falsariga di una struttura già collaudata con l’intervento novellistico del 1986. Ad unanime giudizio della dottrina, infatti, le opzioni normative compiute al riguardo si pongono in coerente sviluppo della tendenza legislativa, emersa sin dalla riforma penitenziaria del 1975 ed accentuatasi con la successiva novellazione del 1986, volta a concentrare negli organi giurisdizionali di sorveglianza i vari aspetti della dinamica rieducativa e dell’individualizzazione della pena e ad omogeneizzare le corrispondenti forme procedurali. E tuttavia, nonostante l’intento di armonizzazione della normativa in materia esecutiva, non si riesce a forgiare un procedimento giurisdizionale unitario e generale per tutti i provvedimenti di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza. In effetti, il procedimento disciplinato dall’art. 678 c.p.p. - che, salve talune specificità, riprende le linee organizzative e procedurali previste per quello di esecuzione di cui all’art. 666 - non costituisce l’unico modulo operativo attraverso il quale si esercita la giurisdizione di sorveglianza. Accanto ad esso - che pur riveste un ruolo di indubbia centralità, tanto da poter essere definito “tipico” - il sistema annovera diversi modelli procedimentali differenziati, definiti procedimenti di sorveglianza “atipici” - per via delle significative diversità strutturali che presentano rispetto al meccanismo ordinario delineato dall’art. 678 - tra i quali spiccano, “per compiutezza sistematica e rilevanza ratione materiae, da una parte il rito del reclamo ex art. 14 ter ord. penit., quale mezzo preordinato ad assicurare un completo esame nel merito di alcuni provvedimenti emessi inaudita altera parte e ritenuti dal detenuto lesivi dei propri diritti, dall’altra il c.d. processo di sicurezza, regolamentato dagli artt. 679 e 680, i quali dettano norme “specializzanti” volte ad integrare, in materia di misure di sicurezza e di dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, la disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 666 (che regolamenta lo schema base del rito post iudicatum) e 678 (che adatta tale schema alle peculiarità della giurisdizione rieducativa). Ulteriori varianti, ricollegate alla specificità della materia oggetto di disciplina, sono previste in tema di riabilitazione (art. 683) e di rinvio dell’esecuzione (art. 684). Esistono, per contro, diverse ipotesi a carattere residuale nelle quali il giudice di sorveglianza è abilitato a decidere de plano, vale a dire “senza formalità” e prescindendo del tutto dall’apporto dialettico degli interessati. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di dubbio sull’identità fisica del condannato (art. 667 in relazione all’art. 678 c. 1) nonché in materia di concessione di permessi ordinari (art. 30 bis ord. penit.), permessi premio (art. 30 ter ord. penit.) e licenze (artt. 52 e 53 ord. penit.), di ammissione al lavoro esterno (art. 21 ord. penit.), di riduzione di pena per la liberazione anticipata ex art. 69 bis ord. penit., di sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni (art. 2 l. 1 agosto 2003 n. 207) e di espulsione dello straniero da parte del magistrato di sorveglianza (art. 16 c. 6 d.lg. 25 luglio 1998 n. 286). L’assenza di contraddittorio connota altresì i provvedimenti c.d. “interinali” o “cautelari” di competenza del magistrato di sorveglianza (ad es., l’applicazione provvisoria del rinvio dell’esecuzione, ex art. 684 c. 2, dell’affidamento in prova al servizio sociale, ex art. 47 c. 4 ord. penit., della detenzione domiciliare, in forza dell’art. 47 ter c. 1 quater ord. penit. o la sospensione cautelativa delle misure alternative, secondo quanto previsto dall’art. 51 ter ord. penit.), di indubbia natura giurisdizionale, poiché suscettivi di incidere immediatamente sulla libertà personale del soggetto, ma adottati al di fuori del percorso procedurale tratteggiato dall’art. 678 e - secondo la Corte Suprema di cassazione - sottratti ad ogni genere di impugnazione, giacché destinati ad essere integralmente assorbiti dalla decisione definitiva del tribunale di sorveglianza. Stante la coesistenza con l’archetipo procedimentale di cui all’art. 678 di procedure “atipiche” e di procedure “informali”, deve pertanto individuarsi con esattezza l’area entro la quale il rito di sorveglianza “tipico” è destinato ad operare. Il legislatore del nuovo codice, nel c. 1 dell’art. 678, ha cercato di tracciarne i confini in relazione alle attribuzioni di ciascuno dei due organi in cui si articola la magistratura di sorveglianza: il magistrato di sorveglianza, a struttura monocratica, ed il tribunale di sorveglianza, organo collegiale, a composizione mista. Entrambi gli organi giurisdizionali di sorveglianza sono titolari di competenze esclusive individuate ratione materiae, la cui ripartizione è suggerita, per talune ipotesi, dall’opportunità di affidare la valutazione al contributo dialettico che può offrire la collegialità, in considerazione, tra l’altro, della specializzazione professionale che presenta l’organo giudicante, tra i cui componenti figurano degli esperti in discipline particolari. Sulla falsariga di soluzioni normative già sperimentate (art. 71 ord. penit.), mentre per quanto riguarda il giudice monocratico si è proceduto ad un elenco nominativo di ipotesi, con riguardo all’organo collegiale si è optato per un generico rinvio alle “materie di sua competenza”. Non sono mancate, peraltro, questioni interpretative sia con riguardo all’individuazione nominatim prescelta per il giudice monocratico sia con riguardo alla tecnica di individuazione per relationem impiegata per il tribunale di sorveglianza. Di tali questioni e delle relative soluzioni prospettate in dottrina e in giurisprudenza, l’Autore dà ampio conto nel commento, preliminarmente alla disamina della specifica disciplina codicistica che delinea il volto, la fisionomia del procedimento di sorveglianza c.d. “tipico”. Disciplina che, sebbene assuma il processo di esecuzione come schema base, cerca in qualche modo di preservare la peculiarità del rito di sorveglianza con l’esplicita previsione di norme integrative o di rettifica di quelle che compongono il modello di riferimento. Così, relativamente alle modalità instaurative del procedimento di sorveglianza, si chiarisce che le stesse variano a seconda che il soggetto nei cui confronti si deve provvedere sia già sottoposto ad espiazione di pena oppure sia ancora in stato di libertà (in conseguenza della sospensione dell’ordine di esecuzione disposta dal magistrato del p.m. ai sensi dell’art. 656 c. 5) e che la possibilità di un avvio ex officio si presenta come connotazione “tipica” ed “esclusiva” del rito di sorveglianza, costituendo inconfondibile profilo di diversità anche rispetto all’omologa procedura esecutiva (art. 666), instaurabile unicamente su sollecitazione di parte. L’autore si sofferma, poi, sui soggetti titolari dello ius postulandi, rilevando come il codice Vassalli, nel confermare - in linea con la previgente normativa - l’iniziativa dell’interessato e l’avvio officioso quali modalità di instaurazione del rito, ha per il resto ampliato il novero dei soggetti legittimati a provocare l’avvio del procedimento, espressamente ricomprendendovi sia il magistrato del p.m. sia il difensore. È controverso se il difensore che ha assistito l’imputato in fase di cognizione possa agire, senza necessità di specifica conferma, quale difensore dell’interessato nel corso della fase dell’esecuzione. La risposta offerta è generalmente negativa, anche se, ultimamente, si tende in dottrina a riconsiderare la questione alla luce del nuovo testo dell’art. 656 c.p.p., che consente espressamente l’ultrattività del mandato conferito nella fase del giudizio, qualora il condannato non proceda ad una nuova nomina per la fase dell’esecuzione. La scelta di predisporre uno schema procedimentale unitario fruibile in executivis si è tradotta concretamente nel rinvio operato dall’art. 678 all’art. 666, ove risulta quindi delineata la struttura portante del rito di sorveglianza. Esaminando il richiamato disposto normativo, si constata come tra la proposizione della domanda - o l’attivazione del rito ex officio iudicis - e l’apertura dell’udienza si collochi una articolata fase di atti preliminari, volti a porre in essere le condizioni indispensabili affinché l’udienza abbia utile svolgimento, scanditi dal controllo preliminare di ammissibilità della domanda, dalla nomina del difensore d’ufficio, dal provvedimento di fissazione dell’udienza e dalla sua notificazione e comunicazione alle parti, infine dal deposito degli atti in cancelleria e dall’eventuale prodromico contraddittorio scritto. La prima incombenza per il giudice consiste nel vaglio di ammissibilità della domanda diretta ad instaurare il procedimento: ad esso procede, senza contraddittorio fra le parti e al di fuori dell’udienza, il giudice o il presidente del collegio, il quale dichiara l’inammissibilità della richiesta in due casi: a) quando l’istanza appaia manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge; b) quando la domanda costituisca mera riproposizione di istanza già rigettata e basata sui medesimi elementi (art. 666, comma 2, c.p.p.). In riferimento ad entrambi i motivi di inammissibilità, dottrina e giurisprudenza concordano sulla necessità di adozione di prudenziali criteri interpretativi, nel senso che il «difetto delle condizioni di legge» e il repetita in idem devono emergere ictu oculi, senza necessità di analisi approfondite, onde evitare indebiti sconfinamenti in anticipate valutazioni di merito (suscettibili di privare l’interessato di quel diritto al contraddittorio che solo la celebrazione dell’udienza gli può garantire) e, nel contempo, assicurare efficienza al filtro preliminare di ammissibilità, istituito per frustrare ab origine iniziative pretestuose o meramente ripetitive di altre già negativamente valutate. Ove la richiesta di procedimento abbia superato il vaglio di ammissibilità, ovvero in seguito all’annullamento del relativo decreto da parte della Corte di cassazione o, ancora, in caso di avvio ex officio del procedimento, il presidente del tribunale di sorveglianza o il magistrato di sorveglianza - a seconda che la materia attenga alle attribuzioni dell’organo collegiale o del giudice monocratico - designa il difensore d’ufficio all’interessato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori con almeno dieci giorni di anticipo rispetto alla data predetta (art. 666 c. 3). L’Autore si sofferma approfonditamente sulle conseguenze da ricondurre all’omesso ovvero all’erroneo compimento delle operazioni in discorso, rilevando come l’assenza di una normativa esplicita in merito alle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla irrituale instaurazione del rapporto processuale, per la omessa o intempestiva notificazione o comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza alle parti o per carenze attinenti ai contenuti minimi dell’avviso, abbia indotto la dottrina a ritenere normalmente estensibili in executivis le regole generali dettate per il processo di cognizione, in quanto compatibili con la peculiarità del rito. Quanto all’udienza camerale, giustamente considerata il momento clou del rito di sorveglianza (atteso che in tale fase procedimentale si sviluppa e si esaurisce tutta la dialettica probatoria), essa è oggetto di una laconica regolamentazione, scolpita essenzialmente da alcune norme di carattere generale, comuni al procedimento di esecuzione (artt. 666 c. 4, 5 e 9, cui va aggiunto l’art. 185 disp. att. e coord.) e da una sola norma di tenore specialistico, rappresentata dalla previsione di cui all’art. 678 c. 2, che impone come obbligatoria l’acquisizione della relativa documentazione per il caso di decisione riferita a soggetto sottoposto ad osservazione scientifica della personalità. La dottrina non ha mancato di rilevare come la specificità del rito di sorveglianza rispetto a quello più generale dell’esecuzione avrebbe imposto una scelta normativa che non sacrificasse le peculiarità della giurisdizione rieducativa. È stata in effetti forgiata una disciplina eccessivamente scarna e inopportunamente appiattita su quella del processo di esecuzione. Mancando una regolamentazione specifica della fase di maggior rilevanza nell’ambito del procedimento di sorveglianza e risultando incompleta la stessa disciplina racchiusa nell’art. 666, applicabile in forza del richiamo ad esso operato dall’art. 678 c. 1, si rende, peraltro, indispensabile il ricorso ad una pluralità di fonti, opportunamente interpretate anche allo scopo di colmare inevitabili lacune. Poiché l’udienza non è pubblica, ma si svolge in camera di consiglio, punto di riferimento obbligato è l’art. 127, che detta la disciplina generale del procedimento in camera di consiglio, la quale subisce in questo caso - come, del resto, in altri casi - delle deroghe, soprattutto perché quello tratteggiato dall’art. 666 c. 4 è un modello camerale “a contraddittorio orale necessario”, per il quale è prevista una imprescindibile partecipazione all’udienza delle parti tecniche (magistrato del p.m. e difensore), mentre i diritti partecipativi dell’interessato si allineano, nella sostanza, a quanto stabilito in sede di disciplina “di genere” (art. 127 c. 3 e 4), con la previsione, dunque, di limiti discendenti da dichiarate ragioni organizzative. Se, in effetti, l’interessato è in vinculis, il suo diritto a partecipare personalmente alla discussione in udienza incontra limiti, in considerazione dell’afferenza o meno del locus custodiae all’ambito territoriale entro cui l’organo procedente è legittimato a ius dicere. Mentre, infatti, il detenuto o internato in luogo posto all’interno della circoscrizione del giudice procedente è titolare di un diritto soggettivo all’audizione, che il giudice è obbligato a disporre statuendo circa ogni adempimento a ciò strumentale (dovrà, in tal senso, ordinarsi la traduzione dell’interessato dal locus custodiae alla sede fisica in cui avrà luogo l’udienza camerale), il detenuto o internato in luogo posto al di fuori della circoscrizione del giudice, il quale intenda interloquire direttamente in udienza al cospetto del giusdicente e formuli apposita richiesta in tal senso, gode di una mera aspettativa comprimibile, essendogli garantita esclusivamente l’audizione da parte del magistrato di sorveglianza competente ratione loci (il quale provvederà, di seguito, a trasmettere il relativo verbale al giudice chiamato a decidere), salvo che il giudice procedente ritenga di disporre la traduzione avanti a sé (art. 666, comma 4, c.p.p.). È questo uno dei profili di maggiore problematicità della vigente disciplina del procedimento di sorveglianza. Altra questione nodale, affrontata dall’Autore, è quella concernente le implicazioni della mancata partecipazione all’udienza del difensore, imputabile ad un «legittimo impedimento» (ad es.: precarie condizioni di salute, concomitante impegno professionale, adesione ad una astensione collettiva dalle udienze proclamata da una associazione professionale) che lo stesso abbia prontamente comunicato. Ci si chiede se, in tal caso, possa trovare applicazione l’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., relativo all’obbligo della sospensione o del rinvio dell’udienza preliminare (ma la previsione vale anche per l’udienza dibattimentale, giusta il richiamo ad essa operato nell’art. 484, comma 2-bis, c.p.p.). In dottrina, la risposta offerta al quesito è generalmente positiva, non rinvenendosi alcuna plausibile giustificazione al deficit di garanzia che, altrimenti, si profilerebbe con riguardo al rito esecutivo, unico modello a contraddittorio necessario in cui l’impedimento del legale fiduciario darebbe luogo solo alla nomina del difensore d’ufficio. Non così lineare la posizione della giurisprudenza, contrassegnata da un marcato contrasto esegetico, per la cui risoluzione sono scese in campo, per ben due volte, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, anche di recente, nel convalidare l’indirizzo maggioritario, hanno rimarcato come, in caso di legittimo impedimento a comparire del difensore, la pienezza della difesa sia assicurata dall’intervento di altro difensore immediatamente reperibile, designato come sostituto ex art. 97, comma 4, c.p.p. Quanto alla vera e propria «dinamica» dell’udienza, la mancanza di una normativa ad hoc ha concretamente indotto a configurare modalità di svolgimento assimilabili a quelle dibattimentali. Stando alla scansione delineata dall’art. 45 disp. att. c.p.p., il quale si occupa espressamente dei procedimenti camerali, l’incipit dell’udienza coincide con la sottofase degli «atti introduttivi» e prosegue con la «relazione orale», dell’organo monocratico o di un componente del collegio previamente nominato dal presidente, destinata ad illustrare il thema decidendum. Alla relazione orale segue l’«istruzione probatoria», connotata dal ruolo primario assegnato al giudice in ordine alla gestione del materiale conoscitivo. Il giusdicente appare, infatti, il dominus incontrastato quando bisogna reperire gli elementi necessari per la pronuncia: sia nel momento in cui acquisisce, motu proprio, informazioni e documenti presso qualsiasi autorità sia, in generale, quando procede, se occorre, ad assumere mezzi di prova, nel rispetto del contrad¬dittorio (artt. 666, comma 5, c.p.p.). Tutto ciò - precisa l’art. 185 disp. att. c.p.p. - avviene «senza particolari formalità» anche se si tratta di citare ed esaminare testimoni o periti. Non è difficile cogliere in una simile impostazione un autentico sovvertimento - con possibili ripercussioni sotto il profilo della terzietà dell’organo giurisdizionale esecutivo - della logica cui si ispira il procedimento penale di cognizione, imperniato sull’iniziativa di parte e sul carattere eccezionale dell’intervento ufficioso del giudice in materia probatoria (art. 190 c.p.p.). Successivamente all’assunzione in contraddittorio dei mezzi di prova e all’audizione dell’interessato, se presente e se chiede di essere sentito, si fa luogo alla «discussione finale», durante la quale gli interlocutori necessari del contraddittorio camerale formulano e illustrano le rispettive conclusioni. Conclusa la discussione, il giudice decide con ordinanza, che per regola generale è sempre motivata a pena di nullità (art. 111, comma 6, Cost. e art. 125, comma 3, c.p.p.). L’ordinanza decisoria va comunicata o notificata, senza ritardo, alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione (art. 666, comma 6, c.p.p.). Il regime delle impugnazioni delle ordinanze conclusive del procedimento di sorveglianza non ha subito modifiche sostanziali con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito. Infatti, sebbene la genericità della direttiva n. 97 l.d. n. 81/1987 (che sanciva il principio della impugnabilità dei provvedimenti emessi dal giudice nella fase della esecuzione) consentisse l’introduzione di un secondo giudizio di merito, il legislatore delegato ha confermato la precedente “scelta minimale” ed ha previsto quale unico mezzo di impugnazione esperibile avverso l’ordinanza terminativa del rito di sorveglianza il ricorso per cassazione per motivi di legittimità (art. 666 c. 6), fatta eccezione per le decisioni in tema di misure di sicurezza, relativamente alle quali si è confermata la possibilità di un riesame nel merito (cfr. art. 680). L’opzione normativa è stata ampiamente censurata dalla dottrina, perché giudicata non legislativamente obbligata e perché, attesa la prevalente natura di merito delle questioni trattate dal giudice di sorveglianza e l’ampia discrezionalità di cui questo gode, sarebbe stata auspicabile la previsione di un riesame anche in facto della pronuncia. Un ultima questione di cui si occupa l’Autore è relativa al c.d. giudicato esecutivo. Si dibatte, in dottrina e in giurisprudenza, se l’ordinanza conclusiva del rito di sorveglianza sia oppure no suscettibile di acquistare efficacia di giudicato. Il problema non è dei più semplici, com’è dimostrato dalla divergenza di opinioni che esso faceva registrare già sotto il codice del 1930. Esso tende ora ad essere risolto nel senso di ritenere che, sebbene non si possa parlare di autentica formazione del giudicato in materie attinenti al procedimento di sorveglianza , trattandosi di decisioni formulate allo stato degli atti, tuttavia nella relativa procedura si realizza l’effetto preclusivo stabilito dall’art. 666 c. 2, laddove una nuova richiesta dell’interessato, carente di elementi di novità rispetto ad un’altra già valutata e divenuta irrevocabile per mancata o infruttosa impugnazione, venga riproposta.

Commento all'art. 678

DARAIO, Girolamo
2010-01-01

Abstract

Il commento è volto a cogliere la ragion d’essere, la portata ed i principali aspetti applicativi della disciplina del procedimento di sorveglianza, espressa nell’art. 678 c.p.p. L’Autore muove dalla considerazione secondo cui il c.d. principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nella Carta costituzionale, rimasto in “ibernazione” per quasi un trentennio, trova la sua prima, organica attuazione, a livello di legislazione ordinaria, con la riforma penitenziaria del 1975, che segna il pieno superamento della concezione tradizionale dell’esecuzione della pena come fenomeno “di pura amministrazione, dominata dall’imperio della mera discrezionalità”, con il conseguente passaggio dall’amministrazione alla giurisdizione. Alla base della svolta culturale realizzatasi con la riforma penitenziaria del 1975 v’è l’acquisita consapevolezza che, nell’ambito delle coordinate tracciate dall’art. 27 c. 3 Cost., la pena inflitta con la sentenza di condanna non è più un qualcosa di immodificabile, potendo andare soggetta, nel corso della sua esecuzione, ad attenuazioni di carattere quantitativo e/o qualitativo in funzione riabilitativa del condannato, il quale deve poter riacquistare la libertà non appena si accerti la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per la sua liberazione. Tale accertamento, concernendo un diritto soggettivo, non può essere demandato ad un organo amministrativo, ma deve essere compiuto da un organo giudiziario nel contesto di un procedimento giurisdizionale, giacché solo un simile contesto si presta ad assicurare variazioni (modali e quantitative) della pena ossequiose del principio di legalità. In quest’ottica, la l. n. 354/1975 riserva alla magistratura di sorveglianza un ruolo di indubbio rilievo, procedendo, innanzitutto, ad uno “sdoppiamento” del “giudice penitenziario” in due organi giusdicenti (il “magistrato di sorveglianza” - già “giudice di sorveglianza” - a struttura monocratica e la neonata “sezione di sorveglianza”, a struttura collegiale); la magistratura di sorveglianza, inoltre, viene resa “specializzata” (non solo per la coesistenza, nell’organo collegiale, di tecnici del diritto con specialisti in problemi caratteriologici e clinici, ma anche perché il magistrato addetto all’ufficio di sorveglianza - differentemente dal passato - non deve essere adibito ad altre funzioni giudiziarie) ed investita di una pluralità di nuove competenze. Ma, al di là della ridefinizione della struttura e delle funzioni della magistratura di sorveglianza, ciò che più nitidamente esprime gli orientamenti del nuovo ordinamento penitenziario è la scelta di creare un apposito rito - il “procedimento di sorveglianza”, ben distinto dal modello procedimentale dei c.d. “incidenti di esecuzione” regolato dall’art. 630 c.p.p. 1930 - per l’esercizio, da parte degli organi di sorveglianza, della loro “giurisdizione rieducativa”; rito la cui disciplina subirà, negli anni, numerose modifiche (per effetto della l. 12 gennaio 1977 n. 1 e soprattutto della l. 10 ottobre 1986 n. 663), nell’intento razionalizzatore di una reductio ad unitatem - sotto il paradigma del rito di cui agli artt. 71 ss. ord. penit. - dei disordinati e spesso incoerenti moduli procedimentali fino ad allora sorti nell’area caotica della giurisdizione di sorveglianza. Si dovrà, tuttavia, attendere l’emanazione del nuovo codice di procedura penale per una radicale revisione dell’assetto giurisdizionale esecutivo. Con l’avvento del codice c.d. Vassalli, infatti, la regolamentazione del procedimento di sorveglianza, estrapolata dal contesto penitenziario ed inserita in quello codicistico (art. 678), viene uniformata - sia pure con qualche variante - a quella del procedimento di esecuzione (art. 666), operazione che, sotto il profilo tecnico, si sostanzia nel rinvio, contenuto nell’art. 678 c. 1, al modello regolato dall’art. 666. Nel porre in rilievo l’importanza della scelta, maturata in sede di elaborazione del codice del 1988, di unificazione del modello processuale per la giurisdizione esecutiva, l’Autore osserva come, al di là del mutamento della tradizionale sedes materiae, la regolamentazione del procedimento di sorveglianza operata dal codice Vassalli avvenga all’insegna della sostanziale continuità con il passato, risultando innegabilmente plasmata sulla falsariga di una struttura già collaudata con l’intervento novellistico del 1986. Ad unanime giudizio della dottrina, infatti, le opzioni normative compiute al riguardo si pongono in coerente sviluppo della tendenza legislativa, emersa sin dalla riforma penitenziaria del 1975 ed accentuatasi con la successiva novellazione del 1986, volta a concentrare negli organi giurisdizionali di sorveglianza i vari aspetti della dinamica rieducativa e dell’individualizzazione della pena e ad omogeneizzare le corrispondenti forme procedurali. E tuttavia, nonostante l’intento di armonizzazione della normativa in materia esecutiva, non si riesce a forgiare un procedimento giurisdizionale unitario e generale per tutti i provvedimenti di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza. In effetti, il procedimento disciplinato dall’art. 678 c.p.p. - che, salve talune specificità, riprende le linee organizzative e procedurali previste per quello di esecuzione di cui all’art. 666 - non costituisce l’unico modulo operativo attraverso il quale si esercita la giurisdizione di sorveglianza. Accanto ad esso - che pur riveste un ruolo di indubbia centralità, tanto da poter essere definito “tipico” - il sistema annovera diversi modelli procedimentali differenziati, definiti procedimenti di sorveglianza “atipici” - per via delle significative diversità strutturali che presentano rispetto al meccanismo ordinario delineato dall’art. 678 - tra i quali spiccano, “per compiutezza sistematica e rilevanza ratione materiae, da una parte il rito del reclamo ex art. 14 ter ord. penit., quale mezzo preordinato ad assicurare un completo esame nel merito di alcuni provvedimenti emessi inaudita altera parte e ritenuti dal detenuto lesivi dei propri diritti, dall’altra il c.d. processo di sicurezza, regolamentato dagli artt. 679 e 680, i quali dettano norme “specializzanti” volte ad integrare, in materia di misure di sicurezza e di dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, la disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 666 (che regolamenta lo schema base del rito post iudicatum) e 678 (che adatta tale schema alle peculiarità della giurisdizione rieducativa). Ulteriori varianti, ricollegate alla specificità della materia oggetto di disciplina, sono previste in tema di riabilitazione (art. 683) e di rinvio dell’esecuzione (art. 684). Esistono, per contro, diverse ipotesi a carattere residuale nelle quali il giudice di sorveglianza è abilitato a decidere de plano, vale a dire “senza formalità” e prescindendo del tutto dall’apporto dialettico degli interessati. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di dubbio sull’identità fisica del condannato (art. 667 in relazione all’art. 678 c. 1) nonché in materia di concessione di permessi ordinari (art. 30 bis ord. penit.), permessi premio (art. 30 ter ord. penit.) e licenze (artt. 52 e 53 ord. penit.), di ammissione al lavoro esterno (art. 21 ord. penit.), di riduzione di pena per la liberazione anticipata ex art. 69 bis ord. penit., di sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni (art. 2 l. 1 agosto 2003 n. 207) e di espulsione dello straniero da parte del magistrato di sorveglianza (art. 16 c. 6 d.lg. 25 luglio 1998 n. 286). L’assenza di contraddittorio connota altresì i provvedimenti c.d. “interinali” o “cautelari” di competenza del magistrato di sorveglianza (ad es., l’applicazione provvisoria del rinvio dell’esecuzione, ex art. 684 c. 2, dell’affidamento in prova al servizio sociale, ex art. 47 c. 4 ord. penit., della detenzione domiciliare, in forza dell’art. 47 ter c. 1 quater ord. penit. o la sospensione cautelativa delle misure alternative, secondo quanto previsto dall’art. 51 ter ord. penit.), di indubbia natura giurisdizionale, poiché suscettivi di incidere immediatamente sulla libertà personale del soggetto, ma adottati al di fuori del percorso procedurale tratteggiato dall’art. 678 e - secondo la Corte Suprema di cassazione - sottratti ad ogni genere di impugnazione, giacché destinati ad essere integralmente assorbiti dalla decisione definitiva del tribunale di sorveglianza. Stante la coesistenza con l’archetipo procedimentale di cui all’art. 678 di procedure “atipiche” e di procedure “informali”, deve pertanto individuarsi con esattezza l’area entro la quale il rito di sorveglianza “tipico” è destinato ad operare. Il legislatore del nuovo codice, nel c. 1 dell’art. 678, ha cercato di tracciarne i confini in relazione alle attribuzioni di ciascuno dei due organi in cui si articola la magistratura di sorveglianza: il magistrato di sorveglianza, a struttura monocratica, ed il tribunale di sorveglianza, organo collegiale, a composizione mista. Entrambi gli organi giurisdizionali di sorveglianza sono titolari di competenze esclusive individuate ratione materiae, la cui ripartizione è suggerita, per talune ipotesi, dall’opportunità di affidare la valutazione al contributo dialettico che può offrire la collegialità, in considerazione, tra l’altro, della specializzazione professionale che presenta l’organo giudicante, tra i cui componenti figurano degli esperti in discipline particolari. Sulla falsariga di soluzioni normative già sperimentate (art. 71 ord. penit.), mentre per quanto riguarda il giudice monocratico si è proceduto ad un elenco nominativo di ipotesi, con riguardo all’organo collegiale si è optato per un generico rinvio alle “materie di sua competenza”. Non sono mancate, peraltro, questioni interpretative sia con riguardo all’individuazione nominatim prescelta per il giudice monocratico sia con riguardo alla tecnica di individuazione per relationem impiegata per il tribunale di sorveglianza. Di tali questioni e delle relative soluzioni prospettate in dottrina e in giurisprudenza, l’Autore dà ampio conto nel commento, preliminarmente alla disamina della specifica disciplina codicistica che delinea il volto, la fisionomia del procedimento di sorveglianza c.d. “tipico”. Disciplina che, sebbene assuma il processo di esecuzione come schema base, cerca in qualche modo di preservare la peculiarità del rito di sorveglianza con l’esplicita previsione di norme integrative o di rettifica di quelle che compongono il modello di riferimento. Così, relativamente alle modalità instaurative del procedimento di sorveglianza, si chiarisce che le stesse variano a seconda che il soggetto nei cui confronti si deve provvedere sia già sottoposto ad espiazione di pena oppure sia ancora in stato di libertà (in conseguenza della sospensione dell’ordine di esecuzione disposta dal magistrato del p.m. ai sensi dell’art. 656 c. 5) e che la possibilità di un avvio ex officio si presenta come connotazione “tipica” ed “esclusiva” del rito di sorveglianza, costituendo inconfondibile profilo di diversità anche rispetto all’omologa procedura esecutiva (art. 666), instaurabile unicamente su sollecitazione di parte. L’autore si sofferma, poi, sui soggetti titolari dello ius postulandi, rilevando come il codice Vassalli, nel confermare - in linea con la previgente normativa - l’iniziativa dell’interessato e l’avvio officioso quali modalità di instaurazione del rito, ha per il resto ampliato il novero dei soggetti legittimati a provocare l’avvio del procedimento, espressamente ricomprendendovi sia il magistrato del p.m. sia il difensore. È controverso se il difensore che ha assistito l’imputato in fase di cognizione possa agire, senza necessità di specifica conferma, quale difensore dell’interessato nel corso della fase dell’esecuzione. La risposta offerta è generalmente negativa, anche se, ultimamente, si tende in dottrina a riconsiderare la questione alla luce del nuovo testo dell’art. 656 c.p.p., che consente espressamente l’ultrattività del mandato conferito nella fase del giudizio, qualora il condannato non proceda ad una nuova nomina per la fase dell’esecuzione. La scelta di predisporre uno schema procedimentale unitario fruibile in executivis si è tradotta concretamente nel rinvio operato dall’art. 678 all’art. 666, ove risulta quindi delineata la struttura portante del rito di sorveglianza. Esaminando il richiamato disposto normativo, si constata come tra la proposizione della domanda - o l’attivazione del rito ex officio iudicis - e l’apertura dell’udienza si collochi una articolata fase di atti preliminari, volti a porre in essere le condizioni indispensabili affinché l’udienza abbia utile svolgimento, scanditi dal controllo preliminare di ammissibilità della domanda, dalla nomina del difensore d’ufficio, dal provvedimento di fissazione dell’udienza e dalla sua notificazione e comunicazione alle parti, infine dal deposito degli atti in cancelleria e dall’eventuale prodromico contraddittorio scritto. La prima incombenza per il giudice consiste nel vaglio di ammissibilità della domanda diretta ad instaurare il procedimento: ad esso procede, senza contraddittorio fra le parti e al di fuori dell’udienza, il giudice o il presidente del collegio, il quale dichiara l’inammissibilità della richiesta in due casi: a) quando l’istanza appaia manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge; b) quando la domanda costituisca mera riproposizione di istanza già rigettata e basata sui medesimi elementi (art. 666, comma 2, c.p.p.). In riferimento ad entrambi i motivi di inammissibilità, dottrina e giurisprudenza concordano sulla necessità di adozione di prudenziali criteri interpretativi, nel senso che il «difetto delle condizioni di legge» e il repetita in idem devono emergere ictu oculi, senza necessità di analisi approfondite, onde evitare indebiti sconfinamenti in anticipate valutazioni di merito (suscettibili di privare l’interessato di quel diritto al contraddittorio che solo la celebrazione dell’udienza gli può garantire) e, nel contempo, assicurare efficienza al filtro preliminare di ammissibilità, istituito per frustrare ab origine iniziative pretestuose o meramente ripetitive di altre già negativamente valutate. Ove la richiesta di procedimento abbia superato il vaglio di ammissibilità, ovvero in seguito all’annullamento del relativo decreto da parte della Corte di cassazione o, ancora, in caso di avvio ex officio del procedimento, il presidente del tribunale di sorveglianza o il magistrato di sorveglianza - a seconda che la materia attenga alle attribuzioni dell’organo collegiale o del giudice monocratico - designa il difensore d’ufficio all’interessato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori con almeno dieci giorni di anticipo rispetto alla data predetta (art. 666 c. 3). L’Autore si sofferma approfonditamente sulle conseguenze da ricondurre all’omesso ovvero all’erroneo compimento delle operazioni in discorso, rilevando come l’assenza di una normativa esplicita in merito alle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla irrituale instaurazione del rapporto processuale, per la omessa o intempestiva notificazione o comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza alle parti o per carenze attinenti ai contenuti minimi dell’avviso, abbia indotto la dottrina a ritenere normalmente estensibili in executivis le regole generali dettate per il processo di cognizione, in quanto compatibili con la peculiarità del rito. Quanto all’udienza camerale, giustamente considerata il momento clou del rito di sorveglianza (atteso che in tale fase procedimentale si sviluppa e si esaurisce tutta la dialettica probatoria), essa è oggetto di una laconica regolamentazione, scolpita essenzialmente da alcune norme di carattere generale, comuni al procedimento di esecuzione (artt. 666 c. 4, 5 e 9, cui va aggiunto l’art. 185 disp. att. e coord.) e da una sola norma di tenore specialistico, rappresentata dalla previsione di cui all’art. 678 c. 2, che impone come obbligatoria l’acquisizione della relativa documentazione per il caso di decisione riferita a soggetto sottoposto ad osservazione scientifica della personalità. La dottrina non ha mancato di rilevare come la specificità del rito di sorveglianza rispetto a quello più generale dell’esecuzione avrebbe imposto una scelta normativa che non sacrificasse le peculiarità della giurisdizione rieducativa. È stata in effetti forgiata una disciplina eccessivamente scarna e inopportunamente appiattita su quella del processo di esecuzione. Mancando una regolamentazione specifica della fase di maggior rilevanza nell’ambito del procedimento di sorveglianza e risultando incompleta la stessa disciplina racchiusa nell’art. 666, applicabile in forza del richiamo ad esso operato dall’art. 678 c. 1, si rende, peraltro, indispensabile il ricorso ad una pluralità di fonti, opportunamente interpretate anche allo scopo di colmare inevitabili lacune. Poiché l’udienza non è pubblica, ma si svolge in camera di consiglio, punto di riferimento obbligato è l’art. 127, che detta la disciplina generale del procedimento in camera di consiglio, la quale subisce in questo caso - come, del resto, in altri casi - delle deroghe, soprattutto perché quello tratteggiato dall’art. 666 c. 4 è un modello camerale “a contraddittorio orale necessario”, per il quale è prevista una imprescindibile partecipazione all’udienza delle parti tecniche (magistrato del p.m. e difensore), mentre i diritti partecipativi dell’interessato si allineano, nella sostanza, a quanto stabilito in sede di disciplina “di genere” (art. 127 c. 3 e 4), con la previsione, dunque, di limiti discendenti da dichiarate ragioni organizzative. Se, in effetti, l’interessato è in vinculis, il suo diritto a partecipare personalmente alla discussione in udienza incontra limiti, in considerazione dell’afferenza o meno del locus custodiae all’ambito territoriale entro cui l’organo procedente è legittimato a ius dicere. Mentre, infatti, il detenuto o internato in luogo posto all’interno della circoscrizione del giudice procedente è titolare di un diritto soggettivo all’audizione, che il giudice è obbligato a disporre statuendo circa ogni adempimento a ciò strumentale (dovrà, in tal senso, ordinarsi la traduzione dell’interessato dal locus custodiae alla sede fisica in cui avrà luogo l’udienza camerale), il detenuto o internato in luogo posto al di fuori della circoscrizione del giudice, il quale intenda interloquire direttamente in udienza al cospetto del giusdicente e formuli apposita richiesta in tal senso, gode di una mera aspettativa comprimibile, essendogli garantita esclusivamente l’audizione da parte del magistrato di sorveglianza competente ratione loci (il quale provvederà, di seguito, a trasmettere il relativo verbale al giudice chiamato a decidere), salvo che il giudice procedente ritenga di disporre la traduzione avanti a sé (art. 666, comma 4, c.p.p.). È questo uno dei profili di maggiore problematicità della vigente disciplina del procedimento di sorveglianza. Altra questione nodale, affrontata dall’Autore, è quella concernente le implicazioni della mancata partecipazione all’udienza del difensore, imputabile ad un «legittimo impedimento» (ad es.: precarie condizioni di salute, concomitante impegno professionale, adesione ad una astensione collettiva dalle udienze proclamata da una associazione professionale) che lo stesso abbia prontamente comunicato. Ci si chiede se, in tal caso, possa trovare applicazione l’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., relativo all’obbligo della sospensione o del rinvio dell’udienza preliminare (ma la previsione vale anche per l’udienza dibattimentale, giusta il richiamo ad essa operato nell’art. 484, comma 2-bis, c.p.p.). In dottrina, la risposta offerta al quesito è generalmente positiva, non rinvenendosi alcuna plausibile giustificazione al deficit di garanzia che, altrimenti, si profilerebbe con riguardo al rito esecutivo, unico modello a contraddittorio necessario in cui l’impedimento del legale fiduciario darebbe luogo solo alla nomina del difensore d’ufficio. Non così lineare la posizione della giurisprudenza, contrassegnata da un marcato contrasto esegetico, per la cui risoluzione sono scese in campo, per ben due volte, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, anche di recente, nel convalidare l’indirizzo maggioritario, hanno rimarcato come, in caso di legittimo impedimento a comparire del difensore, la pienezza della difesa sia assicurata dall’intervento di altro difensore immediatamente reperibile, designato come sostituto ex art. 97, comma 4, c.p.p. Quanto alla vera e propria «dinamica» dell’udienza, la mancanza di una normativa ad hoc ha concretamente indotto a configurare modalità di svolgimento assimilabili a quelle dibattimentali. Stando alla scansione delineata dall’art. 45 disp. att. c.p.p., il quale si occupa espressamente dei procedimenti camerali, l’incipit dell’udienza coincide con la sottofase degli «atti introduttivi» e prosegue con la «relazione orale», dell’organo monocratico o di un componente del collegio previamente nominato dal presidente, destinata ad illustrare il thema decidendum. Alla relazione orale segue l’«istruzione probatoria», connotata dal ruolo primario assegnato al giudice in ordine alla gestione del materiale conoscitivo. Il giusdicente appare, infatti, il dominus incontrastato quando bisogna reperire gli elementi necessari per la pronuncia: sia nel momento in cui acquisisce, motu proprio, informazioni e documenti presso qualsiasi autorità sia, in generale, quando procede, se occorre, ad assumere mezzi di prova, nel rispetto del contrad¬dittorio (artt. 666, comma 5, c.p.p.). Tutto ciò - precisa l’art. 185 disp. att. c.p.p. - avviene «senza particolari formalità» anche se si tratta di citare ed esaminare testimoni o periti. Non è difficile cogliere in una simile impostazione un autentico sovvertimento - con possibili ripercussioni sotto il profilo della terzietà dell’organo giurisdizionale esecutivo - della logica cui si ispira il procedimento penale di cognizione, imperniato sull’iniziativa di parte e sul carattere eccezionale dell’intervento ufficioso del giudice in materia probatoria (art. 190 c.p.p.). Successivamente all’assunzione in contraddittorio dei mezzi di prova e all’audizione dell’interessato, se presente e se chiede di essere sentito, si fa luogo alla «discussione finale», durante la quale gli interlocutori necessari del contraddittorio camerale formulano e illustrano le rispettive conclusioni. Conclusa la discussione, il giudice decide con ordinanza, che per regola generale è sempre motivata a pena di nullità (art. 111, comma 6, Cost. e art. 125, comma 3, c.p.p.). L’ordinanza decisoria va comunicata o notificata, senza ritardo, alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione (art. 666, comma 6, c.p.p.). Il regime delle impugnazioni delle ordinanze conclusive del procedimento di sorveglianza non ha subito modifiche sostanziali con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito. Infatti, sebbene la genericità della direttiva n. 97 l.d. n. 81/1987 (che sanciva il principio della impugnabilità dei provvedimenti emessi dal giudice nella fase della esecuzione) consentisse l’introduzione di un secondo giudizio di merito, il legislatore delegato ha confermato la precedente “scelta minimale” ed ha previsto quale unico mezzo di impugnazione esperibile avverso l’ordinanza terminativa del rito di sorveglianza il ricorso per cassazione per motivi di legittimità (art. 666 c. 6), fatta eccezione per le decisioni in tema di misure di sicurezza, relativamente alle quali si è confermata la possibilità di un riesame nel merito (cfr. art. 680). L’opzione normativa è stata ampiamente censurata dalla dottrina, perché giudicata non legislativamente obbligata e perché, attesa la prevalente natura di merito delle questioni trattate dal giudice di sorveglianza e l’ampia discrezionalità di cui questo gode, sarebbe stata auspicabile la previsione di un riesame anche in facto della pronuncia. Un ultima questione di cui si occupa l’Autore è relativa al c.d. giudicato esecutivo. Si dibatte, in dottrina e in giurisprudenza, se l’ordinanza conclusiva del rito di sorveglianza sia oppure no suscettibile di acquistare efficacia di giudicato. Il problema non è dei più semplici, com’è dimostrato dalla divergenza di opinioni che esso faceva registrare già sotto il codice del 1930. Esso tende ora ad essere risolto nel senso di ritenere che, sebbene non si possa parlare di autentica formazione del giudicato in materie attinenti al procedimento di sorveglianza , trattandosi di decisioni formulate allo stato degli atti, tuttavia nella relativa procedura si realizza l’effetto preclusivo stabilito dall’art. 666 c. 2, laddove una nuova richiesta dell’interessato, carente di elementi di novità rispetto ad un’altra già valutata e divenuta irrevocabile per mancata o infruttosa impugnazione, venga riproposta.
2010
9788821731877
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