La tesi del saggio consiste nel dimostrare un limite dell'attuale dibattito teorico-interpretativo: qualsiasi teoria dell'interpretazione giuridica – a prescindere se sia normativa o voglia limitarsi al piano descrittivo – non può ignorare i rapporti di potere che investono l'interprete e ne è a sua volta condizionata. Tale tesi è tematizzata attraverso un classico problema di teoria dell'interpretazione giuridica (e, indirettamente, di teoria giuridica tout court): se e entro quale misura sia possibile il vincolo di un interprete ad un testo normativo (paradigmaticamente: il vincolo del giudice alla legge ovvero l'essenza del principio di legalità della giurisdizione). Più precisamente, si intende dimostrare che l'an e il quantum di tale vincolo non dipendono unicamente ed esclusivamente dalla mediazione linguistica fra chi produce testi normativi e chi li interpreta, ma da una mediazione del medesimo genere che tenga, però, nel dovuto conto la maggiore o minore indipendenza politica del secondo rispetto al primo. Il tema è sviluppato rifacendosi ad un episodio storico ovvero i lavori preparatori della Costituzione del '48 in tema di giustizia costituzionale, chiedendosi quale delle principali teorie del significato attualmente più discusse (formalismo interpretativo; realismo interpretativo, moderato ed estremo; teoria mista o eclettica) sia stata adottata dai costituenti allo scopo di astringere il giudice costituzionale al testo della ventura Costituzione. Dalla ricostruzione di questo episodio emerge quanto fosse diffusa in Costituente la percezione secondo cui tale fine non potesse essere perseguito con i soli mezzi offerti dalla teoresi in materia interpretativa (e soprattutto semantica), ma necessariamente anche attraverso la strutturazione dei rapporti di potere fra giudice costituzionale e legislatore ordinario nonché costituzionale.
I costituenti e la giustizia costituzionale ovvero (del)la teoria dell’interpretazione giuridica fra linguaggio e potere
BISOGNI, GIOVANNI
2007
Abstract
La tesi del saggio consiste nel dimostrare un limite dell'attuale dibattito teorico-interpretativo: qualsiasi teoria dell'interpretazione giuridica – a prescindere se sia normativa o voglia limitarsi al piano descrittivo – non può ignorare i rapporti di potere che investono l'interprete e ne è a sua volta condizionata. Tale tesi è tematizzata attraverso un classico problema di teoria dell'interpretazione giuridica (e, indirettamente, di teoria giuridica tout court): se e entro quale misura sia possibile il vincolo di un interprete ad un testo normativo (paradigmaticamente: il vincolo del giudice alla legge ovvero l'essenza del principio di legalità della giurisdizione). Più precisamente, si intende dimostrare che l'an e il quantum di tale vincolo non dipendono unicamente ed esclusivamente dalla mediazione linguistica fra chi produce testi normativi e chi li interpreta, ma da una mediazione del medesimo genere che tenga, però, nel dovuto conto la maggiore o minore indipendenza politica del secondo rispetto al primo. Il tema è sviluppato rifacendosi ad un episodio storico ovvero i lavori preparatori della Costituzione del '48 in tema di giustizia costituzionale, chiedendosi quale delle principali teorie del significato attualmente più discusse (formalismo interpretativo; realismo interpretativo, moderato ed estremo; teoria mista o eclettica) sia stata adottata dai costituenti allo scopo di astringere il giudice costituzionale al testo della ventura Costituzione. Dalla ricostruzione di questo episodio emerge quanto fosse diffusa in Costituente la percezione secondo cui tale fine non potesse essere perseguito con i soli mezzi offerti dalla teoresi in materia interpretativa (e soprattutto semantica), ma necessariamente anche attraverso la strutturazione dei rapporti di potere fra giudice costituzionale e legislatore ordinario nonché costituzionale.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.