1. La funzione delle sezioni unite non è ben esplicitata nella legge di ordinamento giudiziario, che individua, tra le attribuzioni della corte suprema di cassazione, « l’uniforme applicazione della legge » (art. 65) e si limita a precisare che il primo presidente presiede, tra l’altro, le « udienze a sezioni unite » (art. 66 comma 2). Il collegamento tra « uniforme applicazione della legge » e « sezioni unite » è tratto dalla disposizione del codice di procedura penale che individua i casi di devoluzione della decisione del ricorso appunto alle sezioni unite. La scelta è rimessa al primo presidente, il quale, di ufficio o su richiesta delle parti o del procuratore generale, assegna il ricorso alle sezioni unite quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni (art. 610 comma 2 c.p.p.). La prima eventualità — « questioni di speciale importanza » — evoca spazi discrezionali insuscettibili di specificazione, mentre la seconda — « contrasti di decisioni tra le sezioni singole » — è senz’altro ascrivibile alla categoria dell’« atto dovuto ». Questa distinzione sembra discendere logicamente dalla fissazione dei compiti della suprema corte di cassazione, tenuta, tra l’altro, ad assicurare « l’uniforme applicazione della legge »: le sezioni unite sono investite della decisione del ricorso quando la questione di diritto che va decisa ha trovato, nelle precedenti esperienze delle sezioni singole, soluzioni contrastanti o, comunque, non uniformi. Ma, altrettanto logicamente si dovrebbe ritenere che, una volta che le sezioni unite abbiano risolto il contrasto, il principio di diritto enunciato — che può « riflettere » la decisione assunta da una delle sezioni in « conflitto interpretativo » o prescindere dalle soluzioni fino a quel punto adottate — abbia valore assoluto e si porga come una sorta di « interpretazione autentica » del dato normativo discusso, almeno fino a quando non intervenga un « ripensamento » da parte delle stesse sezioni unite. Questa puntualizzazione non va intesa come adesione alle proposte di legge che, in vario modo, tendono ad attribuire alla suprema corte di cassazione, e segnatamente alle sezioni unite, un ruolo nomopoietico — analogo a quello delle corti supreme degli ordinamenti anglosassoni, fondato, cioè, sul potere di introdurre precedenti vincolanti quanto meno sulle magistrature di grado inferiore — ma vuole spiegare le ragioni di questo commentario, unico nel pur vasto e variegato panorama delle raccolte giurisprudenziali, scaturito dalla convinzione di dover proporre un nuovo approccio interpretativo alla tematica del ruolo della suprema corte di cassazione come fonte primaria del diritto vivente. 2. In caso di molteplici e a volte multiformi dichiarazioni di principio delle sezioni unite, i redattori dei singoli commenti sono stati invitati a dar prevalenza al dictum formulato sui quesiti introduttivi del giudizio. Dalla lettura delle sentenze, infatti, si coglie spesso un doppio livello di decisione sui punti di diritto: da un lato, le pronunce che hanno costituito la specifica ragione, formale e logico-giuridica, dell’intervento del massimo consesso giurisdizionale e, dall’altro, le pronunce che, invece, si collocano come meramente incidentali all’interno di un percorso decisionale, comunque, polarizzato verso la soluzione dei quesiti posti alle sezioni unite. È evidente che tra le due tipologie di « dichiarazioni di principio » debba prevalere la prima, quella concernente, come detto, i quesiti introduttivi del giudizio. Tra le questioni che formano oggetto specifico e diretto dei quesiti e le questioni invece da risolvere in via incidentale, sussiste un imprescindibile rapporto di antecedenza logico-giuridica, tanto che queste ultime non sarebbero neppure affrontate e, quindi, risolte se non fosse stato instaurato il giudizio sulla base dei quesiti posti alle sezioni unite: le questioni oggetto dei quesiti si presentano come « necessarie », le questioni solo incidentali si presentano come « eventuali ». L’« impegno » e l’« attenzione » nella risoluzione dei quesiti « necessari » (che non possono essere elusi o trascurati) risultano certamente maggiori e più intensi di quando oggetto di decisione sono soltanto i quesiti « eventuali » (che in quanto tali possono, infatti, essere elusi o trascurati). Ne consegue che il processo elaborativo che conduce alla soluzione dei quesiti « necessari » ha una sua oggettiva « prevalenza metodologica ». Si tratta di vedere se alla « prevalenza metodologica » corrisponda anche una « prevalenza interpretativa ». Un fine giurista ha avvertito che « una nomofilachia formalistica non ha senso, poiché non significa ―difesa della legge‖, ma difesa di un‘interpretazione formale della legge. D‘altra parte, nomofilachia come scelta e difesa dell‘interpretazione giusta non significa di per sé far capo a criteri specifici e predeterminati di giustizia materiale, né tanto meno a criteri equitativi o a contenuti particolari. Essa significa invece scelta dell‘interpretazione sorretta dalle migliori ragioni, siano esse logiche, sistematiche o valutative: sotto questo profilo è la correttezza del procedimento di scelta e l‘accettabilità dei criteri su cui questa si fonda ad essere l‘elemento essenziale, più che la natura del risultato particolare che ne deriva. Per così dire, la nomofilachia attiene alla ―giustezza del metodo‖ d‘interpretazione della legge, che quindi — da un punto di vista generale — è la sola condizione per la giustizia del risultato » (Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, p. 90). Posto che il metodo d’interpretazione si riflette sulla giustizia della decisione, quando l’operazione interpretativa è più accurata e logicamente e giuridicamente prioritaria, come accade per l’elaborazione avente ad oggetto la soluzione dei quesiti posti alle sezioni unite, essa deve avere, necessariamente, anche una prevalenza sul piano della « giustizia », deve, cioè, avere un valore di « giustizia » maggiore rispetto ai risultati dell’elaborazione esegetica relativa alle questioni « eventuali » affrontate e risolte dalle sezioni unite o dell’elaborazione esegetica, comunque, posta in essere da organi giurisdizionali diversi. 3. Se le dichiarazioni di principio delle sezioni unite della suprema corte di cassazione relative ai quesiti ad esse specificamente posti hanno una prevalenza interpretativa, allora è necessario che tale prevalenza esplichi i suoi effetti proprio sul piano dell’applicazione del diritto e, cioè, sul piano della giustizia effettiva, in quanto praticata. Si può così affermare che tali dichiarazioni di principio delle sezioni unite costituiscono precedenti vincolanti per tutti i giudici ordinari e che un loro mutamento è possibile soltanto a seguito di nuova elaborazione esegetica da parte delle medesime sezioni unite. Le conseguenze di un simile assunto sono, come ben si comprende, rivoluzionarie per l’attuale panorama giurisprudenziale e dottrinale, stratificato su posizioni tralaticie e sclerotizzate. L’occasione del commentario alle decisioni delle sezioni unite mi sembra particolarmente adatta per l’inaugurazione di una nuova stagione degli studi processualpenalistici, d’ora in poi più attenti agli sviluppi della prassi e, soprattutto, alle relazioni tra ius scriptum e ius vivum. Nell’ambito del presente lavoro, è stato svolto un accurato commento degli articoli 444-448 relativi al delicato istituto dell’applicazione di pena su richiesta delle parti.
Commento agli artt. 444-448
DALIA, Gaspare
2007-01-01
Abstract
1. La funzione delle sezioni unite non è ben esplicitata nella legge di ordinamento giudiziario, che individua, tra le attribuzioni della corte suprema di cassazione, « l’uniforme applicazione della legge » (art. 65) e si limita a precisare che il primo presidente presiede, tra l’altro, le « udienze a sezioni unite » (art. 66 comma 2). Il collegamento tra « uniforme applicazione della legge » e « sezioni unite » è tratto dalla disposizione del codice di procedura penale che individua i casi di devoluzione della decisione del ricorso appunto alle sezioni unite. La scelta è rimessa al primo presidente, il quale, di ufficio o su richiesta delle parti o del procuratore generale, assegna il ricorso alle sezioni unite quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni (art. 610 comma 2 c.p.p.). La prima eventualità — « questioni di speciale importanza » — evoca spazi discrezionali insuscettibili di specificazione, mentre la seconda — « contrasti di decisioni tra le sezioni singole » — è senz’altro ascrivibile alla categoria dell’« atto dovuto ». Questa distinzione sembra discendere logicamente dalla fissazione dei compiti della suprema corte di cassazione, tenuta, tra l’altro, ad assicurare « l’uniforme applicazione della legge »: le sezioni unite sono investite della decisione del ricorso quando la questione di diritto che va decisa ha trovato, nelle precedenti esperienze delle sezioni singole, soluzioni contrastanti o, comunque, non uniformi. Ma, altrettanto logicamente si dovrebbe ritenere che, una volta che le sezioni unite abbiano risolto il contrasto, il principio di diritto enunciato — che può « riflettere » la decisione assunta da una delle sezioni in « conflitto interpretativo » o prescindere dalle soluzioni fino a quel punto adottate — abbia valore assoluto e si porga come una sorta di « interpretazione autentica » del dato normativo discusso, almeno fino a quando non intervenga un « ripensamento » da parte delle stesse sezioni unite. Questa puntualizzazione non va intesa come adesione alle proposte di legge che, in vario modo, tendono ad attribuire alla suprema corte di cassazione, e segnatamente alle sezioni unite, un ruolo nomopoietico — analogo a quello delle corti supreme degli ordinamenti anglosassoni, fondato, cioè, sul potere di introdurre precedenti vincolanti quanto meno sulle magistrature di grado inferiore — ma vuole spiegare le ragioni di questo commentario, unico nel pur vasto e variegato panorama delle raccolte giurisprudenziali, scaturito dalla convinzione di dover proporre un nuovo approccio interpretativo alla tematica del ruolo della suprema corte di cassazione come fonte primaria del diritto vivente. 2. In caso di molteplici e a volte multiformi dichiarazioni di principio delle sezioni unite, i redattori dei singoli commenti sono stati invitati a dar prevalenza al dictum formulato sui quesiti introduttivi del giudizio. Dalla lettura delle sentenze, infatti, si coglie spesso un doppio livello di decisione sui punti di diritto: da un lato, le pronunce che hanno costituito la specifica ragione, formale e logico-giuridica, dell’intervento del massimo consesso giurisdizionale e, dall’altro, le pronunce che, invece, si collocano come meramente incidentali all’interno di un percorso decisionale, comunque, polarizzato verso la soluzione dei quesiti posti alle sezioni unite. È evidente che tra le due tipologie di « dichiarazioni di principio » debba prevalere la prima, quella concernente, come detto, i quesiti introduttivi del giudizio. Tra le questioni che formano oggetto specifico e diretto dei quesiti e le questioni invece da risolvere in via incidentale, sussiste un imprescindibile rapporto di antecedenza logico-giuridica, tanto che queste ultime non sarebbero neppure affrontate e, quindi, risolte se non fosse stato instaurato il giudizio sulla base dei quesiti posti alle sezioni unite: le questioni oggetto dei quesiti si presentano come « necessarie », le questioni solo incidentali si presentano come « eventuali ». L’« impegno » e l’« attenzione » nella risoluzione dei quesiti « necessari » (che non possono essere elusi o trascurati) risultano certamente maggiori e più intensi di quando oggetto di decisione sono soltanto i quesiti « eventuali » (che in quanto tali possono, infatti, essere elusi o trascurati). Ne consegue che il processo elaborativo che conduce alla soluzione dei quesiti « necessari » ha una sua oggettiva « prevalenza metodologica ». Si tratta di vedere se alla « prevalenza metodologica » corrisponda anche una « prevalenza interpretativa ». Un fine giurista ha avvertito che « una nomofilachia formalistica non ha senso, poiché non significa ―difesa della legge‖, ma difesa di un‘interpretazione formale della legge. D‘altra parte, nomofilachia come scelta e difesa dell‘interpretazione giusta non significa di per sé far capo a criteri specifici e predeterminati di giustizia materiale, né tanto meno a criteri equitativi o a contenuti particolari. Essa significa invece scelta dell‘interpretazione sorretta dalle migliori ragioni, siano esse logiche, sistematiche o valutative: sotto questo profilo è la correttezza del procedimento di scelta e l‘accettabilità dei criteri su cui questa si fonda ad essere l‘elemento essenziale, più che la natura del risultato particolare che ne deriva. Per così dire, la nomofilachia attiene alla ―giustezza del metodo‖ d‘interpretazione della legge, che quindi — da un punto di vista generale — è la sola condizione per la giustizia del risultato » (Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, p. 90). Posto che il metodo d’interpretazione si riflette sulla giustizia della decisione, quando l’operazione interpretativa è più accurata e logicamente e giuridicamente prioritaria, come accade per l’elaborazione avente ad oggetto la soluzione dei quesiti posti alle sezioni unite, essa deve avere, necessariamente, anche una prevalenza sul piano della « giustizia », deve, cioè, avere un valore di « giustizia » maggiore rispetto ai risultati dell’elaborazione esegetica relativa alle questioni « eventuali » affrontate e risolte dalle sezioni unite o dell’elaborazione esegetica, comunque, posta in essere da organi giurisdizionali diversi. 3. Se le dichiarazioni di principio delle sezioni unite della suprema corte di cassazione relative ai quesiti ad esse specificamente posti hanno una prevalenza interpretativa, allora è necessario che tale prevalenza esplichi i suoi effetti proprio sul piano dell’applicazione del diritto e, cioè, sul piano della giustizia effettiva, in quanto praticata. Si può così affermare che tali dichiarazioni di principio delle sezioni unite costituiscono precedenti vincolanti per tutti i giudici ordinari e che un loro mutamento è possibile soltanto a seguito di nuova elaborazione esegetica da parte delle medesime sezioni unite. Le conseguenze di un simile assunto sono, come ben si comprende, rivoluzionarie per l’attuale panorama giurisprudenziale e dottrinale, stratificato su posizioni tralaticie e sclerotizzate. L’occasione del commentario alle decisioni delle sezioni unite mi sembra particolarmente adatta per l’inaugurazione di una nuova stagione degli studi processualpenalistici, d’ora in poi più attenti agli sviluppi della prassi e, soprattutto, alle relazioni tra ius scriptum e ius vivum. Nell’ambito del presente lavoro, è stato svolto un accurato commento degli articoli 444-448 relativi al delicato istituto dell’applicazione di pena su richiesta delle parti.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.