La «rogatoria internazionale» è il nome aulico che tradizionalmente si dà alla richiesta di assistenza giudiziaria per il compimento, al di là dei confini nazionali, di attività di acquisizione probatoria (o, più latamente, processuale), che uno Stato presenta ad un altro ed alla quale questo decide di volta in volta se dare o meno séguito, adottando un’autonoma decisione. Attraverso la rogatoria internazionale, pertanto, si mira ad ottenere che atti destinati ad avere effetti in un procedimento penale pendente in un determinato Stato vengano svolti sul territorio di un altro Stato, con il consenso di quest’ultimo e a cura di organi del medesimo. Tra le diverse forme che la cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale può assumere, la mutua assistenza su base rogatoriale è, indubbiamente, quella che presenta maggiori potenzialità operative, potendo ad essa farsi ricorso per il compimento di atti processuali di diversa natura. Particolare rilievo assumono però quelli aventi funzione probatoria, intesi lato sensu, considerando cioè in questa categoria non solo gli atti che il giudice può legittimamente porre a base del suo convincimento, ma altresì quelli che, pur non rientrando nel plafond probatorio su cui il giudice è legittimato a costruire la decisione finale, possono fornire elementi utili per le indagini in corso e per le conseguenti strategie processuali tanto dell’accusa quanto della difesa. Si tratta, ovviamente, di atti processuali per i quali l’autorità richiedente difetta di giurisdizione, a cagione dei «limiti spaziali che la coesistenza di una moltitudine di ordinamenti giuridici superiorem non recognoscentes comporta». Il ricorso alla rogatoria per ottenere da un altro Stato il compimento, sul suo territorio e ad opera di suoi organi, di determinati atti di rilevanza processuale nello Stato rogante si giustifica, infatti, proprio in ragione dell’esistenza del principio di territorialità della giurisdizione, coessenziale al principio di sovranità. Stando così le cose, il diritto internazionale non poteva non avere un ruolo di primo piano nella disciplina dell’istituto de quo, così come in quella di tutti gli altri istituti tramite i quali si realizza la cooperazione giudiziaria interstatuale in campo penale. Ed è proprio ciò che afferma, con riguardo all’ordinamento italiano, l’art. 696 del codice di rito penale, allorché stabilisce che i rapporti con autorità straniere in materia penale — instaurati anche attraverso il ricorso a strumenti diversi da quelli ivi espressamente menzionati — sono regolati dalla normativa internazionale generale e convenzionale e, solo se questa manchi, dalle norme di fonte interna. Si fissa, così, un duplice principio: quello della prevalenza delle norme di fonte internazionale (generale e pattizia) sulla legislazione domestica (art. 696, comma 1°, c.p.p.) e il c.d. principio di sussidiarietà, in forza del quale le disposizioni contenute nel codice si applicano solo se «mancano o non dispongono diversamente» le norme di fonte internazionale (art. 696, comma 2°, c.p.p.). Con riguardo alla prevalenza del diritto internazionale generale, l’art. 696 nulla aggiunge rispetto a quanto già risulta dall’art. 10, comma 1°, Cost., che impegna lo Stato italiano a conformarsi «alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Non sembra, però, che esistano norme di diritto internazionale generale disciplinanti direttamente la materia delle rogatorie. In effetti, la normativa di fonte internazionale in tema di rogatorie è costituita essenzialmente da convenzioni multilaterali e bilaterali con le quali le parti contraenti si impegnano a concedere reciprocamente la collaborazione giudiziaria in procedimenti penali per compiere attività di acquisizione probatoria ed ogni altra attività collegata all’esigenza di un procedimento in corso, quale ad esempio la comunicazione o la notificazione di atti giudiziari. Quali siano tali accordi o convenzioni, l’art. 696 c.p.p., ovviamente, non lo dice, né poteva essere diversamente, attesa la lunga lista di trattati e convenzioni in materia di cui è parte l’Italia. Va peraltro rilevato come l’anzidetta disposizione codicistica nella sua versione originaria, si limitasse ad un richiamo di ordine generale alle convenzioni internazionali «in vigore per lo Stato», evocando quindi tutti i trattati ratificati dall’Italia e resi esecutivi da una norma interna. Sennonché, una legge molto controversa approvata nel 2001 (la n. 367 del 5 ottobre 2001) ha interpolato l’art. 696 c.p.p., inserendovi un esplicito riferimento alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959. Questa convenzione, siglata a Strasburgo nel 1959, costituisce il primo tentativo di regolare in maniera omogenea il settore dell’assistenza giudiziaria interstatuale penale con riferimento agli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa, che, com’è noto, costituisce il più antico ed attualmente il più vasto organismo politico europeo. Essa costituente l’archetipo del diritto convenzionale “europeo” nel settore dell’assistenza giudiziaria penale, rivestendo tuttora un ruolo centrale per la cooperazione interstatuale in tema di giustizia penale. Tuttavia, col passare degli anni, tale convenzione ha palesato anacronismi e insufficienze che hanno indotto gli Stati a stipulare accordi integrativi bilaterali e, soprattutto, hanno condotto alla stipula, nell’àmbito della Comunità (dal 1993, Unione) europea, della Convenzione applicativa dell’Accordo di Schengen e della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, destinata a completare e modificare le precedenti convenzioni di Strasburgo e di Shengen, sì da disporre di uno strumento più moderno e più agile per la disciplina delle relazioni tra gli Stati dell’Unione. Appurato che la normativa internazionale applicabile alla materia delle rogatorie ha natura essenzialmente “pattizia”, è espressa cioè dai trattati internazionali, i quali, stante il disposto dell’art. 696 c.p.p., prevalgono sulla normativa di fonte interna, l’Autore si sofferma brevemente — prima di esaminare la disciplina codicistica delle rogatorie — sulla vexata quaestio, di carattere generale, della collocazione che deve essere attribuita al diritto internazionale pattizio nel sistema delle fonti, in particolare rispetto alla Carta costituzionale. L’Autore precisa che un contributo chiarificatore, al riguardo, è giunto dalla Corte costituzionale la quale, in alcune sue pronunce (e, in particolare, nelle sentenze n. 348 e n. 349, entrambe emesse il 22-10-2007), ha offerto una lettura sistematica del tema dei rapporti tra legislazione italiana ed obblighi internazionali alla luce del nuovo testo dell’art. 117, 1° comma, Cost. come riscritto dalla l. cost. 18-10-2001, n. 3, delineando, con chiarezza, valore e àmbito di rilevanza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel nostro sistema delle fonti, con affermazioni che possono essere estese ad ogni altra Carta dei diritti e a tutto il diritto internazionale pattizio. Al principio di supremazia delle norme di fonte internazionale (generale e pattizia) su quelle di fonte interna, sancito nell’art. 696, 1° comma, c.p.p., fa da pendant il c.d. principio di sussidiarietà della normativa interna, espresso nel 2° comma del medesimo art. 696. In forza di tale principio, è soltanto in via sussidiaria che il campo dei rapporti di cooperazione giudiziaria penale su base rogatoriale — come del resto ogni altro settore implicante «rapporti giurisdizionali con autorità straniere» — risulta regolato da specifiche norme di fonte interna, ivi comprese le stesse norme che, nel codice, sono collocate nel titolo III del libro XI, dedicato, appunto, alle «Rogatorie internazionali» (artt. 723-729 c.p.p.). Di tali norme, la legge dice expressis verbis che si applicano solo se «mancano o non dispongono diversamente» le norme di fonte internazionale (art. 696, comma 2°, c.p.p.). Esse, pertanto, sono destinate a disciplinare la condotta degli operatori italiani con riguardo a richieste di assistenza giudiziaria oltre confine indirizzate a (o provenienti da) Stati con i quali non esistono trattati per la cooperazione internazionale. Hanno, tuttavia, rilevanza anche nei rapporti con gli Stati con i quali tali trattati esistono, se e nella misura in cui le norme pattizie lasciano spazio per integrazioni e/o per deroghe (ad es., è di fonte interna la normativa che consente di individuare le competenze funzionali rispetto ad atti del procedimento per l’esecuzione della rogatoria: avrebbe poco senso, in linea di principio, che di ciò si occupassero le convenzioni internazionali). Chiarito ciò, l’Autore, nell’accingersi all’analisi delle norme codicistiche che disciplinano l’istituto delle rogatorie internazionali, rileva come le fonti interne distinguano il versante «passivo» e quello «attivo» dell’istituto. Le rogatorie, pertanto, si distinguono in «attive» (o «all’estero») e «passive» (o «dall’estero») a seconda che lo Stato italiano sia l’autore o il destinatario della richiesta di assistenza. Precisamente, la rogatoria «all’estero» si delinea ogni volta l’autorità giudiziaria italiana — giudice o magistrato del pubblico ministero — chieda all’autorità giudiziaria di un altro Stato di svolgere per suo conto un’attività necessaria al processo che si sta celebrando nel territorio italiano. La rogatoria «dall’estero» si configura, invece, quando è l’autorità straniera ad attivare i canali dell’assistenza giudiziaria internazionale, rivolgendo allo Stato italiano una richiesta tesa ad ottenere il compimento sul territorio italiano, ad opera di organi giudiziari italiani, di una determinata attività di rilevanza processuale nello Stato rogante. Le fonti interne della disciplina delle rogatorie sono pertanto costituite da due complessi normativi distinti: uno riguardante la rogatoria passiva (id est ricevuta dall’Italia), l’altro riguardante la rogatoria attiva (id est trasmessa dall’Italia al Paese straniero ove è richiesto che l’atto si compia). In linea di massima, e salvi particolari accordi internazionali, può dirsi, per l’ipotesi della rogatoria attiva, che la legge italiana (artt. 727-729 c.p.p.) ne disciplina forme, contenuto, garanzie e conseguenze, finché la stessa non sia pervenuta al giudice straniero ed immediatamente dopo che quest’ultimo l’abbia restituita espletata; per l’ipotesi passiva, l’espletamento degli atti richiesti è disciplinato dalla normativa italiana (artt. 723-726-ter c.p.p.) fino a quando le rogatorie rimangano in possesso delle competenti autorità nazionali. Dalla normativa interna proviene un’indicazione circa le categorie di atti suscettibili di formare oggetto di una richiesta di assistenza giudiziaria penale mediante rogatoria. Il riferimento degli artt. 723, 1° comma, c.p.p. (per le rogatorie passive) e 727, 1° comma, c.p.p. (per le rogatorie attive) è a «comunicazioni, notificazioni e [...] attività di acquisizione probatoria». Si tratta di un’indicazione di massima, che certamente non esaurisce la gamma degli atti per i quali è consentito specularmente prestare o richiedere assistenza giudiziaria. L’Autore si sofferma approfonditamente su questo profilo, dando conto dell’elaborazione dottrinale e dell’evoluzione giurisprudenziale sviluppatisi sul punto. Individuati gli «atti rogabili», l’Autore procede all’esame della disciplina dettata dal codice in tema di rogatorie dall’estero (o passive), rilevando come tale disciplina preveda la compresenza di valutazioni di opportunità politica e di vagli propriamente giurisdizionali: la richiesta non può esser eseguita senza l’exequatur della corte di appello, ma il Ministro della giustizia è titolare di intensi poteri di blocco preventivo che sanciscono l’immediato esito sfavorevole della domanda, rendendo dunque inutile ogni successiva delibazione dell’autorità giudiziaria. Esaminate le regole dettate in tema di rifiuto di esecuzione della rogatoria chiesta da un altro Stato (la disciplina al riguardo è piuttosto analitica e individua separatamente — e cioè, rispettivamente, nell’art. 723 e nel 5° comma dell’art. 724 c.p.p. — le cause del rifiuto di tale esecuzione, a seconda che siano rilevabili in sede ministeriale o in sede giudiziaria), l’Autore affronta il tema della esecuzione dell’ordinanza che concede l’exequatur e della sua possibile impugnazione. Passa, quindi, ad esaminare la disciplina dettata per le Rogatorie all’estero (o attive), rilevando come, nel solco della tradizione, il codice del 1988 forgi un modello di rogatoria attiva imperniato sulla necessaria intermediazione del Ministro della giustizia, consentendo, tuttavia, nei casi di urgenza, all’autorità giudiziaria di provvedere direttamente all’inoltro della richiesta all’agente diplomatico o consolare all’estero. Come quando era in vigore il codice Rocco, così ora si distinguono, dunque, una procedura «ordinaria» e una «di urgenza». Relativamente all’attività rogabile, la formulazione utilizzata dall’art. 727, 1° comma, c.p.p. è speculare al disposto dell’art. 723 c.p.p. per le rogatorie passive: l’ausilio dell’autorità straniera può essere chiesto per «comunicazioni, notificazioni e [...] attività di acquisizione probatoria». Ancora una volta, dunque, si ricorre ad una indicazione generica e tendenzialmente onnicomprensiva, tale da confermare che lo spazio delle rogatorie internazionali è tanto ampio quanto vario è il numero degli atti ritenuti necessari per l’accertamento della responsabilità dell’imputato. Altrettanta genericità si rinviene nella l’individuazione dei soggetti legittimati a promuovere l’assistenza rogatoriale. L’art. 727 c.p.p., infatti, nello stabilire, in esordio, che le rogatorie sono richieste dai «giudici» e dai «magistrati del pubblico ministero», non fa cenno alcuno a limitazioni derivanti dalla fase procedimentale in corso. Deve conseguentemente ritenersi che, salvo i limiti che talora derivano — con riguardo all’àmbito soggettivo delle rogatorie attive — dalla normativa pattizia, la rogatoria all’estero possa essere promossa, dalla magistratura giudicante e da quella requirente, in ogni fase del procedimento penale, sia esso ordinario o speciale, di cognizione o di esecuzione, principale o incidentale. Il difensore, invece, non è annoverato tra i soggetti che promuovono rogatorie internazionali: nell’art. 727, 1° comma, c.p.p. si fa esclusivo riferimento a «rogatorie dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero dirette, nell’àmbito delle rispettive attribuzioni, alle autorità straniere». Nessun altra disposizione del codice, peraltro, menziona la possibilità che l’istanza di cooperazione provenga dal difensore o da altro soggetto che non sia un magistrato. Va da sé che il difensore non rientra tra i soggetti legittimati ad attivare il meccanismo rogatoriale. Di recente, peraltro, la Suprema Corte ha affermato che, in base ai princìpi generali del codice di rito, «ai fini dell’utilizzabilità di atti compiuti all’estero, per tutte le parti processuali, deve essere esperita la procedura prevista dal codice in materia di rogatorie», con la conseguenza che il difensore non è direttamente abilitato a svolgere, al di fuori dei confini nazionali, indagini difensive ex art. 391-bis c.p.p. Se dunque avesse necessità di acquisire materiale probatorio oltre confine, il difensore dovrebbe rivolgersi (mediante deposito in cancelleria o in segreteria di memorie e richieste ex artt. 121 e 367 c.p.p.) all’autorità giudiziaria italiana dinanzi alla quale pende il procedimento (magistrato del pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice dell’udienza preliminare, giudice dibattimentale) affinché si attivi per la rogatoria. A giudizio dell’Autore, si concretizza, in tal modo, una palese disparità di trattamento fra parti processuali, delle quali una (il pubblico ministero) è in grado di valutare discrezionalmente l’opportunità ed utilità della rogatoria, mentre l’altra (il difensore) è costretta a cedere nelle mani dell’antagonista ogni decisione in merito. Circa le procedure per l’inoltro delle domande per rogatoria all’autorità giudiziaria straniera il codice ne disciplina due tipi: una procedura «ordinaria» e una «di urgenza». Nella prima riveste un ruolo centrale il Ministro della giustizia, come collettore delle domande avanzate dalle autorità giudiziarie italiane e come curatore del loro inoltro per via diplomatica, salvo l’esercizio, da parte sua, di un potere di blocco di quelle che ritenga idonee a compromettere «la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato» (art. 727, commi 1-4, c.p.p.). Nella seconda, l’autorità giudiziaria richiedente può «bypassare» l’ufficio del Guardasigilli, ove ricorrano «casi di urgenza». A questo punto, l’Autore si sofferma sulla vexata quaestio in ordine alla procedura di acquisizione di atti pre-formati in un procedimento svoltosi all’estero, che, per alcuni, deve avvenire al di fuori della procedura rogatoriale, per altri, invece, deve seguire il percorso tracciato dagli artt. 723 ss. c.p.p., con conseguente necessità — ove si tratti di rogatoria «dall’estero» — di ottenere il placet preventivo del ministro della giustizia e l’exequatur della corte d’appello. Passa, quindi, ad esaminare le modalità di svolgimento delle rogatorie, tenendo conto anche delle indicazioni provenienti dalle Convenzioni internazionali. In particolare, evidenzia come l’art. 3, § 1, Conv. di Strasburgo del 1959 stabilisca in via generale il principio per cui le forme di esecuzione delle rogatorie sono quelle previste dalla legislazione dello Stato richiesto. Pertanto, all’autorità giudiziaria rogante è riservata esclusivamente la valutazione circa l’utilizzabilità interna degli atti assunti all’estero, mentre gli organi giurisdizionali del Paese richiesto procederanno, di norma, all’assunzione degli atti rogati osservando le forme per questi stabilite dal proprio ordinamento sulla base, appunto, del principio del locus regit actum. Maggiore elasticità è prevista al riguardo, oltre che da diversi accordi integrativi della convenzione, dalla legislazione interna italiana. Infatti, in una prospettiva di maggiore collaborazione e di maggiore efficacia dell’assistenza rogatoriale, e in deroga al principio del locus regit actum, l’art. 725, comma 2, c.p.p stabilisce, quanto alle «rogatorie dall’estero», che l’autorità straniera richiedente può ottenere che l’esecuzione dell’attività richiesta avvenga secondo particolari modalità di svolgimento, sempre che queste «non siano contrarie ai princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato». A sua volta, con riguardo alle «rogatorie all’estero», la disposizione del comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p. prevede che l’autorità giudiziaria italiana, nel formulare la domanda di assistenza, specifichi le modalità di svolgimento degli atti richiesti indicando anche gli elementi necessari per la loro utilizzazione processuale, sempre che gli accordi internazionali consentano che la domanda di assistenza giudiziaria «possa essere eseguita secondo modalità previste dall’ordinamento dello Stato». In effetti, alcuni tra gli accordi conclusi dall’Italia in materia configurano appunto l’eventualità di cui si discorre nel comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p., introdotto dalla più volte citata l. n. 367 del 2001. Sappiamo, invece, non essere ancora operativa per l’Italia la Convenzione di Bruxelles del 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale, vigente sul piano internazionale dal 2005. Allorché entrerà in vigore anche per il nostro Paese — che è tra i pochi, nell’àmbito dell’Unione europea, a non averla ancora ratificata — occorrerà confrontarsi con significative novità, a cominciare da quella prefigurata dal suo art. 4, § 1, che, realizzando un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, fa diventare regola, per lo Stato richiesto, l’osservanza delle «formalità» e delle «procedure espressamente indicate dallo Stato richiedente», salve diverse disposizioni in contrario della Convenzione stessa, e «sempreché le formalità e le procedure indicate non siano in conflitto con i princìpi fondamentali del diritto dello Stato richiesto». De iure condito, stante la previsione del comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p., ove la convenzione applicabile consenta l’esecuzione dell’attività richiesta secondo le modalità previste dal nostro ordinamento, l’autorità giudiziaria italiana, nel formulare la richiesta, specificherà tali modalità. Resta da esaminare, a questo punto, il problema dell’utilizzazione dei risultati delle rogatorie. A riguardo, si registra l’intervenuto ampliamento (ad opera della discussa legge 5-10-2001, n. 367) delle ipotesi - espresse nell’art. 729 c.p.p. - di inutilizzabilità degli atti raccolti per mezzo di rogatoria internazionale L’autore si sofferma approfonditamente su ognuno dei quattro casi di inutilizzabilità delle risultanze rogatoriali, tutti disciplinati nell’art. 729 c.p.p.; segnatamente, sulla inutilizzabilità comminata per violazioni attinenti alla specialità o all’iter di trasmissione o alle modalità di acquisizione o, infine, all’uso probatorio delle dichiarazioni aventi ad oggetto il contenuto di atti inutilizzabili. Va peraltro ricordato che, a salvaguardia del regolare impiego processuale degli atti compiuti all’estero mediante rogatoria, è previsto, in chiusura dell’art. 729, che a tutte le ipotesi di inutilizzabilità ivi disciplinate si applichi la disposizione generale dettata nell’art. 191, comma 2°, c.p.p. L’ultimo profilo trattato attiene alle tendenze ed alle prospettive della cooperazione penale nello «spazio giudiziario europeo». Nel ricostruire le linee evolutive della cooperazione giudiziaria penale nella società globalizzata, l’Autore rileva come sia, ormai, un dato di fatto che alla tradizionale cooperazione su base rogatoriale — da sempre intesa come un’assistenza nell’assunzione della prova esclusivamente fondata sul criterio dell’esecuzione secondo la legge dello Stato richiesto e ad opera delle competenti autorità straniere — vanno in maniera crescente affiancandosi modelli di assistenza “non rogatoriale” tendenzialmente svincolati dal principio in parola. Si tratta di strumenti e metodi nuovi di assistenza contemplati a livello convenzionale (bilaterale e multilaterale), basati su una cooperazione diretta tra le autorità giudiziarie di diversi Stati e, in ogni caso, su moderne procedure operative volte, se non a superare il classico criterio di territorialità dell’esercizio della giurisdizione penale, ad assicurare soluzioni conformi alla lex fori, e al tempo stesso compatibili con la lex loci. Questa tendenza è il riflesso della dimensione «transnazionale» assunta dalla moderna criminalità organizzata (sia per l’ampiezza dei mercati illeciti che gestisce sia per gli strumenti che a tal fine utilizza), che rende ineludibile il ricorso, da parte degli Stati, a nuove forme di cooperazione che superino l’incapacità dei tradizionali sistemi di governare, con successo, la realtà «globalizzata» del crimine organizzato. Essa, peraltro, è piuttosto accentuata nelle aree regionali caratterizzate da processi di “integrazione” o “armonizzazione” dei sistemi giuridici, e in particolar modo nell’area geografica europea, sia con riferimento alla cooperazione multilaterale sviluppata nell’àmbito del Consiglio d’Europa sia con riguardo a quella instaurata tra gli Stati dell’Unione europea, accomunati, com’è noto, dall’ambizioso obiettivo della costruzione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia. In effetti, nell’àmbito dell’Unione europea, il modello tradizionale della cooperazione giudiziaria internazionale, sostanzialmente basato sulle forme classiche del c.d. diritto convenzionale «estradizionale» e «rogatoriale», è stato nell’ultimo decennio soggetto ad una profonda rivisitazione, soprattutto per effetto delle prime applicazioni del c.d. «principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie» ai settori più disparati della cooperazione penale (non solo il mandato d’arresto europeo, ma anche l’ordine di congelamento e sequestro dei beni in funzione probatoria e preventiva, l’ordine europeo di confisca, il mandato europeo di ricerca ed acquisizione delle fonti di prova, ecc.). L’esigenza di rendere i rapporti di assistenza giudiziaria più fluidi e meno permeabili a ragioni diverse da quelle di giustizia ha, infatti, indotto le istituzioni comunitarie, agli albori del nuovo millennio, ad individuare nuovi modelli di cooperazione giudiziaria penale interstatuale, incentrati su un dialogo diretto — al di fuori, cioè, dei tradizionali canali ministeriali — tra gli attori della collaborazione, vale dire le autorità giudiziarie degli Stati membri. Al fine di rappresentare adeguatamente tendenze e prospettive della cooperazione giudiziaria penale in àmbito europeo, l’Autore ripercorre, sia pure per grandi linee, le fasi salienti del processo di «europeizzazione» del diritto penale (sostanziale e processuale), rilevando come il superamento del tradizionale approccio alla cooperazione giudiziaria penale internazionale (una sorta di concessione che uno Stato opera nell’interesse di un altro Stato) sia avvenuto progressivamente, attraverso un quadro ampio di iniziative e progetti avviati dalle Istituzioni comunitarie tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio, tesi sia a favorire il ravvicinamento degli ordinamenti penalistici dei Paesi europei, sotto il profilo tanto delle norme di sostanza quanto di quelle di procedura; sia a promuovere l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale; sia, ancora, a creare strutture di sostegno e di coordinamento investigativo in grado di facilitare e rafforzare la collaborazione tra le autorità giudiziarie; sia, infine, ad aggiornare il corpus delle norme convenzionali in materia di assistenza giudiziaria, imperniato sul tradizionale schema della rogatoria, in favore di un nuovo modello di assistenza «non rogatoriale» — basato su una cooperazione diretta tra le giurisdizioni piuttosto che su una cooperazione tra governi — di cui vi è ampia traccia nella Convenzione di Bruxelles del 29-5-2000, sull’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati facenti parte dell’Unione europea, e nel relativo Protocollo addizionale del 16-10-2001. In questo quadro di iniziative si inserisce la previsione del nuovo strumento di cooperazione giudiziaria interstatuale previsto dalla decisione quadro 2008/978/GAI del Consiglio dell’Unione europea, denominato «mandato europeo di ricerca delle prove» (MER) e costruito attorno ad un’interpretazione alta del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, declinato sul complesso e delicato terreno della circolazione (acquisizione e successivo trasferimento) di dati probatori. Si tratta, infatti, di una nuova forma di assistenza «non rogatoriale», direttamente instaurabile tra le diverse autorità giudiziarie interessate — senza il «filtro» delle autorità centrali, che viene limitato ad una funzione di mero supporto tecnico-amministrativo (art. 8 dec. quadro) — al fine della ricerca ed acquisizione, ultra fines, di oggetti, documenti e dati potenzialmente utilizzabili, in chiave probatoria, all’interno di un procedimento penale, o della sola acquisizione di fonti probatorie già nella disponibilità delle autorità di esecuzione. A tale strumento l’Autore dedica - a conclusione del suo lavoro - un’approfondita analisi, non nascondendo le proprie perplessità in ordine alle potenzialità operative della procedura di consegna disciplinata dalla decisione quadro 2008/978/GAI, che paiono decisamente ridotte. È infatti difficile immaginare che il tradizionale sistema di assistenza giudiziaria in materia penale, basato su convenzioni bilaterali o multilaterali, possa essere rimpiazzato da uno strumento, come quello prefigurato dall’anzidetta decisione quadro, che, nel dare attuazione al principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, esclude dal suo raggio di azione — salvo che siano preesistenti all’e¬missione del mandato — le prove dichiarative, la prova scientifica, i risultati delle intercettazioni, i tabulati telefonici e telematici, vale a dire attività investigative ed istruttorie normalmente esperite attraverso gli strumenti dell’assistenza giudiziaria su base rogatoriale.

Le rogatorie internazionali

DARAIO, Girolamo
2009-01-01

Abstract

La «rogatoria internazionale» è il nome aulico che tradizionalmente si dà alla richiesta di assistenza giudiziaria per il compimento, al di là dei confini nazionali, di attività di acquisizione probatoria (o, più latamente, processuale), che uno Stato presenta ad un altro ed alla quale questo decide di volta in volta se dare o meno séguito, adottando un’autonoma decisione. Attraverso la rogatoria internazionale, pertanto, si mira ad ottenere che atti destinati ad avere effetti in un procedimento penale pendente in un determinato Stato vengano svolti sul territorio di un altro Stato, con il consenso di quest’ultimo e a cura di organi del medesimo. Tra le diverse forme che la cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale può assumere, la mutua assistenza su base rogatoriale è, indubbiamente, quella che presenta maggiori potenzialità operative, potendo ad essa farsi ricorso per il compimento di atti processuali di diversa natura. Particolare rilievo assumono però quelli aventi funzione probatoria, intesi lato sensu, considerando cioè in questa categoria non solo gli atti che il giudice può legittimamente porre a base del suo convincimento, ma altresì quelli che, pur non rientrando nel plafond probatorio su cui il giudice è legittimato a costruire la decisione finale, possono fornire elementi utili per le indagini in corso e per le conseguenti strategie processuali tanto dell’accusa quanto della difesa. Si tratta, ovviamente, di atti processuali per i quali l’autorità richiedente difetta di giurisdizione, a cagione dei «limiti spaziali che la coesistenza di una moltitudine di ordinamenti giuridici superiorem non recognoscentes comporta». Il ricorso alla rogatoria per ottenere da un altro Stato il compimento, sul suo territorio e ad opera di suoi organi, di determinati atti di rilevanza processuale nello Stato rogante si giustifica, infatti, proprio in ragione dell’esistenza del principio di territorialità della giurisdizione, coessenziale al principio di sovranità. Stando così le cose, il diritto internazionale non poteva non avere un ruolo di primo piano nella disciplina dell’istituto de quo, così come in quella di tutti gli altri istituti tramite i quali si realizza la cooperazione giudiziaria interstatuale in campo penale. Ed è proprio ciò che afferma, con riguardo all’ordinamento italiano, l’art. 696 del codice di rito penale, allorché stabilisce che i rapporti con autorità straniere in materia penale — instaurati anche attraverso il ricorso a strumenti diversi da quelli ivi espressamente menzionati — sono regolati dalla normativa internazionale generale e convenzionale e, solo se questa manchi, dalle norme di fonte interna. Si fissa, così, un duplice principio: quello della prevalenza delle norme di fonte internazionale (generale e pattizia) sulla legislazione domestica (art. 696, comma 1°, c.p.p.) e il c.d. principio di sussidiarietà, in forza del quale le disposizioni contenute nel codice si applicano solo se «mancano o non dispongono diversamente» le norme di fonte internazionale (art. 696, comma 2°, c.p.p.). Con riguardo alla prevalenza del diritto internazionale generale, l’art. 696 nulla aggiunge rispetto a quanto già risulta dall’art. 10, comma 1°, Cost., che impegna lo Stato italiano a conformarsi «alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Non sembra, però, che esistano norme di diritto internazionale generale disciplinanti direttamente la materia delle rogatorie. In effetti, la normativa di fonte internazionale in tema di rogatorie è costituita essenzialmente da convenzioni multilaterali e bilaterali con le quali le parti contraenti si impegnano a concedere reciprocamente la collaborazione giudiziaria in procedimenti penali per compiere attività di acquisizione probatoria ed ogni altra attività collegata all’esigenza di un procedimento in corso, quale ad esempio la comunicazione o la notificazione di atti giudiziari. Quali siano tali accordi o convenzioni, l’art. 696 c.p.p., ovviamente, non lo dice, né poteva essere diversamente, attesa la lunga lista di trattati e convenzioni in materia di cui è parte l’Italia. Va peraltro rilevato come l’anzidetta disposizione codicistica nella sua versione originaria, si limitasse ad un richiamo di ordine generale alle convenzioni internazionali «in vigore per lo Stato», evocando quindi tutti i trattati ratificati dall’Italia e resi esecutivi da una norma interna. Sennonché, una legge molto controversa approvata nel 2001 (la n. 367 del 5 ottobre 2001) ha interpolato l’art. 696 c.p.p., inserendovi un esplicito riferimento alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959. Questa convenzione, siglata a Strasburgo nel 1959, costituisce il primo tentativo di regolare in maniera omogenea il settore dell’assistenza giudiziaria interstatuale penale con riferimento agli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa, che, com’è noto, costituisce il più antico ed attualmente il più vasto organismo politico europeo. Essa costituente l’archetipo del diritto convenzionale “europeo” nel settore dell’assistenza giudiziaria penale, rivestendo tuttora un ruolo centrale per la cooperazione interstatuale in tema di giustizia penale. Tuttavia, col passare degli anni, tale convenzione ha palesato anacronismi e insufficienze che hanno indotto gli Stati a stipulare accordi integrativi bilaterali e, soprattutto, hanno condotto alla stipula, nell’àmbito della Comunità (dal 1993, Unione) europea, della Convenzione applicativa dell’Accordo di Schengen e della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, destinata a completare e modificare le precedenti convenzioni di Strasburgo e di Shengen, sì da disporre di uno strumento più moderno e più agile per la disciplina delle relazioni tra gli Stati dell’Unione. Appurato che la normativa internazionale applicabile alla materia delle rogatorie ha natura essenzialmente “pattizia”, è espressa cioè dai trattati internazionali, i quali, stante il disposto dell’art. 696 c.p.p., prevalgono sulla normativa di fonte interna, l’Autore si sofferma brevemente — prima di esaminare la disciplina codicistica delle rogatorie — sulla vexata quaestio, di carattere generale, della collocazione che deve essere attribuita al diritto internazionale pattizio nel sistema delle fonti, in particolare rispetto alla Carta costituzionale. L’Autore precisa che un contributo chiarificatore, al riguardo, è giunto dalla Corte costituzionale la quale, in alcune sue pronunce (e, in particolare, nelle sentenze n. 348 e n. 349, entrambe emesse il 22-10-2007), ha offerto una lettura sistematica del tema dei rapporti tra legislazione italiana ed obblighi internazionali alla luce del nuovo testo dell’art. 117, 1° comma, Cost. come riscritto dalla l. cost. 18-10-2001, n. 3, delineando, con chiarezza, valore e àmbito di rilevanza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel nostro sistema delle fonti, con affermazioni che possono essere estese ad ogni altra Carta dei diritti e a tutto il diritto internazionale pattizio. Al principio di supremazia delle norme di fonte internazionale (generale e pattizia) su quelle di fonte interna, sancito nell’art. 696, 1° comma, c.p.p., fa da pendant il c.d. principio di sussidiarietà della normativa interna, espresso nel 2° comma del medesimo art. 696. In forza di tale principio, è soltanto in via sussidiaria che il campo dei rapporti di cooperazione giudiziaria penale su base rogatoriale — come del resto ogni altro settore implicante «rapporti giurisdizionali con autorità straniere» — risulta regolato da specifiche norme di fonte interna, ivi comprese le stesse norme che, nel codice, sono collocate nel titolo III del libro XI, dedicato, appunto, alle «Rogatorie internazionali» (artt. 723-729 c.p.p.). Di tali norme, la legge dice expressis verbis che si applicano solo se «mancano o non dispongono diversamente» le norme di fonte internazionale (art. 696, comma 2°, c.p.p.). Esse, pertanto, sono destinate a disciplinare la condotta degli operatori italiani con riguardo a richieste di assistenza giudiziaria oltre confine indirizzate a (o provenienti da) Stati con i quali non esistono trattati per la cooperazione internazionale. Hanno, tuttavia, rilevanza anche nei rapporti con gli Stati con i quali tali trattati esistono, se e nella misura in cui le norme pattizie lasciano spazio per integrazioni e/o per deroghe (ad es., è di fonte interna la normativa che consente di individuare le competenze funzionali rispetto ad atti del procedimento per l’esecuzione della rogatoria: avrebbe poco senso, in linea di principio, che di ciò si occupassero le convenzioni internazionali). Chiarito ciò, l’Autore, nell’accingersi all’analisi delle norme codicistiche che disciplinano l’istituto delle rogatorie internazionali, rileva come le fonti interne distinguano il versante «passivo» e quello «attivo» dell’istituto. Le rogatorie, pertanto, si distinguono in «attive» (o «all’estero») e «passive» (o «dall’estero») a seconda che lo Stato italiano sia l’autore o il destinatario della richiesta di assistenza. Precisamente, la rogatoria «all’estero» si delinea ogni volta l’autorità giudiziaria italiana — giudice o magistrato del pubblico ministero — chieda all’autorità giudiziaria di un altro Stato di svolgere per suo conto un’attività necessaria al processo che si sta celebrando nel territorio italiano. La rogatoria «dall’estero» si configura, invece, quando è l’autorità straniera ad attivare i canali dell’assistenza giudiziaria internazionale, rivolgendo allo Stato italiano una richiesta tesa ad ottenere il compimento sul territorio italiano, ad opera di organi giudiziari italiani, di una determinata attività di rilevanza processuale nello Stato rogante. Le fonti interne della disciplina delle rogatorie sono pertanto costituite da due complessi normativi distinti: uno riguardante la rogatoria passiva (id est ricevuta dall’Italia), l’altro riguardante la rogatoria attiva (id est trasmessa dall’Italia al Paese straniero ove è richiesto che l’atto si compia). In linea di massima, e salvi particolari accordi internazionali, può dirsi, per l’ipotesi della rogatoria attiva, che la legge italiana (artt. 727-729 c.p.p.) ne disciplina forme, contenuto, garanzie e conseguenze, finché la stessa non sia pervenuta al giudice straniero ed immediatamente dopo che quest’ultimo l’abbia restituita espletata; per l’ipotesi passiva, l’espletamento degli atti richiesti è disciplinato dalla normativa italiana (artt. 723-726-ter c.p.p.) fino a quando le rogatorie rimangano in possesso delle competenti autorità nazionali. Dalla normativa interna proviene un’indicazione circa le categorie di atti suscettibili di formare oggetto di una richiesta di assistenza giudiziaria penale mediante rogatoria. Il riferimento degli artt. 723, 1° comma, c.p.p. (per le rogatorie passive) e 727, 1° comma, c.p.p. (per le rogatorie attive) è a «comunicazioni, notificazioni e [...] attività di acquisizione probatoria». Si tratta di un’indicazione di massima, che certamente non esaurisce la gamma degli atti per i quali è consentito specularmente prestare o richiedere assistenza giudiziaria. L’Autore si sofferma approfonditamente su questo profilo, dando conto dell’elaborazione dottrinale e dell’evoluzione giurisprudenziale sviluppatisi sul punto. Individuati gli «atti rogabili», l’Autore procede all’esame della disciplina dettata dal codice in tema di rogatorie dall’estero (o passive), rilevando come tale disciplina preveda la compresenza di valutazioni di opportunità politica e di vagli propriamente giurisdizionali: la richiesta non può esser eseguita senza l’exequatur della corte di appello, ma il Ministro della giustizia è titolare di intensi poteri di blocco preventivo che sanciscono l’immediato esito sfavorevole della domanda, rendendo dunque inutile ogni successiva delibazione dell’autorità giudiziaria. Esaminate le regole dettate in tema di rifiuto di esecuzione della rogatoria chiesta da un altro Stato (la disciplina al riguardo è piuttosto analitica e individua separatamente — e cioè, rispettivamente, nell’art. 723 e nel 5° comma dell’art. 724 c.p.p. — le cause del rifiuto di tale esecuzione, a seconda che siano rilevabili in sede ministeriale o in sede giudiziaria), l’Autore affronta il tema della esecuzione dell’ordinanza che concede l’exequatur e della sua possibile impugnazione. Passa, quindi, ad esaminare la disciplina dettata per le Rogatorie all’estero (o attive), rilevando come, nel solco della tradizione, il codice del 1988 forgi un modello di rogatoria attiva imperniato sulla necessaria intermediazione del Ministro della giustizia, consentendo, tuttavia, nei casi di urgenza, all’autorità giudiziaria di provvedere direttamente all’inoltro della richiesta all’agente diplomatico o consolare all’estero. Come quando era in vigore il codice Rocco, così ora si distinguono, dunque, una procedura «ordinaria» e una «di urgenza». Relativamente all’attività rogabile, la formulazione utilizzata dall’art. 727, 1° comma, c.p.p. è speculare al disposto dell’art. 723 c.p.p. per le rogatorie passive: l’ausilio dell’autorità straniera può essere chiesto per «comunicazioni, notificazioni e [...] attività di acquisizione probatoria». Ancora una volta, dunque, si ricorre ad una indicazione generica e tendenzialmente onnicomprensiva, tale da confermare che lo spazio delle rogatorie internazionali è tanto ampio quanto vario è il numero degli atti ritenuti necessari per l’accertamento della responsabilità dell’imputato. Altrettanta genericità si rinviene nella l’individuazione dei soggetti legittimati a promuovere l’assistenza rogatoriale. L’art. 727 c.p.p., infatti, nello stabilire, in esordio, che le rogatorie sono richieste dai «giudici» e dai «magistrati del pubblico ministero», non fa cenno alcuno a limitazioni derivanti dalla fase procedimentale in corso. Deve conseguentemente ritenersi che, salvo i limiti che talora derivano — con riguardo all’àmbito soggettivo delle rogatorie attive — dalla normativa pattizia, la rogatoria all’estero possa essere promossa, dalla magistratura giudicante e da quella requirente, in ogni fase del procedimento penale, sia esso ordinario o speciale, di cognizione o di esecuzione, principale o incidentale. Il difensore, invece, non è annoverato tra i soggetti che promuovono rogatorie internazionali: nell’art. 727, 1° comma, c.p.p. si fa esclusivo riferimento a «rogatorie dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero dirette, nell’àmbito delle rispettive attribuzioni, alle autorità straniere». Nessun altra disposizione del codice, peraltro, menziona la possibilità che l’istanza di cooperazione provenga dal difensore o da altro soggetto che non sia un magistrato. Va da sé che il difensore non rientra tra i soggetti legittimati ad attivare il meccanismo rogatoriale. Di recente, peraltro, la Suprema Corte ha affermato che, in base ai princìpi generali del codice di rito, «ai fini dell’utilizzabilità di atti compiuti all’estero, per tutte le parti processuali, deve essere esperita la procedura prevista dal codice in materia di rogatorie», con la conseguenza che il difensore non è direttamente abilitato a svolgere, al di fuori dei confini nazionali, indagini difensive ex art. 391-bis c.p.p. Se dunque avesse necessità di acquisire materiale probatorio oltre confine, il difensore dovrebbe rivolgersi (mediante deposito in cancelleria o in segreteria di memorie e richieste ex artt. 121 e 367 c.p.p.) all’autorità giudiziaria italiana dinanzi alla quale pende il procedimento (magistrato del pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice dell’udienza preliminare, giudice dibattimentale) affinché si attivi per la rogatoria. A giudizio dell’Autore, si concretizza, in tal modo, una palese disparità di trattamento fra parti processuali, delle quali una (il pubblico ministero) è in grado di valutare discrezionalmente l’opportunità ed utilità della rogatoria, mentre l’altra (il difensore) è costretta a cedere nelle mani dell’antagonista ogni decisione in merito. Circa le procedure per l’inoltro delle domande per rogatoria all’autorità giudiziaria straniera il codice ne disciplina due tipi: una procedura «ordinaria» e una «di urgenza». Nella prima riveste un ruolo centrale il Ministro della giustizia, come collettore delle domande avanzate dalle autorità giudiziarie italiane e come curatore del loro inoltro per via diplomatica, salvo l’esercizio, da parte sua, di un potere di blocco di quelle che ritenga idonee a compromettere «la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato» (art. 727, commi 1-4, c.p.p.). Nella seconda, l’autorità giudiziaria richiedente può «bypassare» l’ufficio del Guardasigilli, ove ricorrano «casi di urgenza». A questo punto, l’Autore si sofferma sulla vexata quaestio in ordine alla procedura di acquisizione di atti pre-formati in un procedimento svoltosi all’estero, che, per alcuni, deve avvenire al di fuori della procedura rogatoriale, per altri, invece, deve seguire il percorso tracciato dagli artt. 723 ss. c.p.p., con conseguente necessità — ove si tratti di rogatoria «dall’estero» — di ottenere il placet preventivo del ministro della giustizia e l’exequatur della corte d’appello. Passa, quindi, ad esaminare le modalità di svolgimento delle rogatorie, tenendo conto anche delle indicazioni provenienti dalle Convenzioni internazionali. In particolare, evidenzia come l’art. 3, § 1, Conv. di Strasburgo del 1959 stabilisca in via generale il principio per cui le forme di esecuzione delle rogatorie sono quelle previste dalla legislazione dello Stato richiesto. Pertanto, all’autorità giudiziaria rogante è riservata esclusivamente la valutazione circa l’utilizzabilità interna degli atti assunti all’estero, mentre gli organi giurisdizionali del Paese richiesto procederanno, di norma, all’assunzione degli atti rogati osservando le forme per questi stabilite dal proprio ordinamento sulla base, appunto, del principio del locus regit actum. Maggiore elasticità è prevista al riguardo, oltre che da diversi accordi integrativi della convenzione, dalla legislazione interna italiana. Infatti, in una prospettiva di maggiore collaborazione e di maggiore efficacia dell’assistenza rogatoriale, e in deroga al principio del locus regit actum, l’art. 725, comma 2, c.p.p stabilisce, quanto alle «rogatorie dall’estero», che l’autorità straniera richiedente può ottenere che l’esecuzione dell’attività richiesta avvenga secondo particolari modalità di svolgimento, sempre che queste «non siano contrarie ai princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato». A sua volta, con riguardo alle «rogatorie all’estero», la disposizione del comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p. prevede che l’autorità giudiziaria italiana, nel formulare la domanda di assistenza, specifichi le modalità di svolgimento degli atti richiesti indicando anche gli elementi necessari per la loro utilizzazione processuale, sempre che gli accordi internazionali consentano che la domanda di assistenza giudiziaria «possa essere eseguita secondo modalità previste dall’ordinamento dello Stato». In effetti, alcuni tra gli accordi conclusi dall’Italia in materia configurano appunto l’eventualità di cui si discorre nel comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p., introdotto dalla più volte citata l. n. 367 del 2001. Sappiamo, invece, non essere ancora operativa per l’Italia la Convenzione di Bruxelles del 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale, vigente sul piano internazionale dal 2005. Allorché entrerà in vigore anche per il nostro Paese — che è tra i pochi, nell’àmbito dell’Unione europea, a non averla ancora ratificata — occorrerà confrontarsi con significative novità, a cominciare da quella prefigurata dal suo art. 4, § 1, che, realizzando un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, fa diventare regola, per lo Stato richiesto, l’osservanza delle «formalità» e delle «procedure espressamente indicate dallo Stato richiedente», salve diverse disposizioni in contrario della Convenzione stessa, e «sempreché le formalità e le procedure indicate non siano in conflitto con i princìpi fondamentali del diritto dello Stato richiesto». De iure condito, stante la previsione del comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p., ove la convenzione applicabile consenta l’esecuzione dell’attività richiesta secondo le modalità previste dal nostro ordinamento, l’autorità giudiziaria italiana, nel formulare la richiesta, specificherà tali modalità. Resta da esaminare, a questo punto, il problema dell’utilizzazione dei risultati delle rogatorie. A riguardo, si registra l’intervenuto ampliamento (ad opera della discussa legge 5-10-2001, n. 367) delle ipotesi - espresse nell’art. 729 c.p.p. - di inutilizzabilità degli atti raccolti per mezzo di rogatoria internazionale L’autore si sofferma approfonditamente su ognuno dei quattro casi di inutilizzabilità delle risultanze rogatoriali, tutti disciplinati nell’art. 729 c.p.p.; segnatamente, sulla inutilizzabilità comminata per violazioni attinenti alla specialità o all’iter di trasmissione o alle modalità di acquisizione o, infine, all’uso probatorio delle dichiarazioni aventi ad oggetto il contenuto di atti inutilizzabili. Va peraltro ricordato che, a salvaguardia del regolare impiego processuale degli atti compiuti all’estero mediante rogatoria, è previsto, in chiusura dell’art. 729, che a tutte le ipotesi di inutilizzabilità ivi disciplinate si applichi la disposizione generale dettata nell’art. 191, comma 2°, c.p.p. L’ultimo profilo trattato attiene alle tendenze ed alle prospettive della cooperazione penale nello «spazio giudiziario europeo». Nel ricostruire le linee evolutive della cooperazione giudiziaria penale nella società globalizzata, l’Autore rileva come sia, ormai, un dato di fatto che alla tradizionale cooperazione su base rogatoriale — da sempre intesa come un’assistenza nell’assunzione della prova esclusivamente fondata sul criterio dell’esecuzione secondo la legge dello Stato richiesto e ad opera delle competenti autorità straniere — vanno in maniera crescente affiancandosi modelli di assistenza “non rogatoriale” tendenzialmente svincolati dal principio in parola. Si tratta di strumenti e metodi nuovi di assistenza contemplati a livello convenzionale (bilaterale e multilaterale), basati su una cooperazione diretta tra le autorità giudiziarie di diversi Stati e, in ogni caso, su moderne procedure operative volte, se non a superare il classico criterio di territorialità dell’esercizio della giurisdizione penale, ad assicurare soluzioni conformi alla lex fori, e al tempo stesso compatibili con la lex loci. Questa tendenza è il riflesso della dimensione «transnazionale» assunta dalla moderna criminalità organizzata (sia per l’ampiezza dei mercati illeciti che gestisce sia per gli strumenti che a tal fine utilizza), che rende ineludibile il ricorso, da parte degli Stati, a nuove forme di cooperazione che superino l’incapacità dei tradizionali sistemi di governare, con successo, la realtà «globalizzata» del crimine organizzato. Essa, peraltro, è piuttosto accentuata nelle aree regionali caratterizzate da processi di “integrazione” o “armonizzazione” dei sistemi giuridici, e in particolar modo nell’area geografica europea, sia con riferimento alla cooperazione multilaterale sviluppata nell’àmbito del Consiglio d’Europa sia con riguardo a quella instaurata tra gli Stati dell’Unione europea, accomunati, com’è noto, dall’ambizioso obiettivo della costruzione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia. In effetti, nell’àmbito dell’Unione europea, il modello tradizionale della cooperazione giudiziaria internazionale, sostanzialmente basato sulle forme classiche del c.d. diritto convenzionale «estradizionale» e «rogatoriale», è stato nell’ultimo decennio soggetto ad una profonda rivisitazione, soprattutto per effetto delle prime applicazioni del c.d. «principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie» ai settori più disparati della cooperazione penale (non solo il mandato d’arresto europeo, ma anche l’ordine di congelamento e sequestro dei beni in funzione probatoria e preventiva, l’ordine europeo di confisca, il mandato europeo di ricerca ed acquisizione delle fonti di prova, ecc.). L’esigenza di rendere i rapporti di assistenza giudiziaria più fluidi e meno permeabili a ragioni diverse da quelle di giustizia ha, infatti, indotto le istituzioni comunitarie, agli albori del nuovo millennio, ad individuare nuovi modelli di cooperazione giudiziaria penale interstatuale, incentrati su un dialogo diretto — al di fuori, cioè, dei tradizionali canali ministeriali — tra gli attori della collaborazione, vale dire le autorità giudiziarie degli Stati membri. Al fine di rappresentare adeguatamente tendenze e prospettive della cooperazione giudiziaria penale in àmbito europeo, l’Autore ripercorre, sia pure per grandi linee, le fasi salienti del processo di «europeizzazione» del diritto penale (sostanziale e processuale), rilevando come il superamento del tradizionale approccio alla cooperazione giudiziaria penale internazionale (una sorta di concessione che uno Stato opera nell’interesse di un altro Stato) sia avvenuto progressivamente, attraverso un quadro ampio di iniziative e progetti avviati dalle Istituzioni comunitarie tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio, tesi sia a favorire il ravvicinamento degli ordinamenti penalistici dei Paesi europei, sotto il profilo tanto delle norme di sostanza quanto di quelle di procedura; sia a promuovere l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale; sia, ancora, a creare strutture di sostegno e di coordinamento investigativo in grado di facilitare e rafforzare la collaborazione tra le autorità giudiziarie; sia, infine, ad aggiornare il corpus delle norme convenzionali in materia di assistenza giudiziaria, imperniato sul tradizionale schema della rogatoria, in favore di un nuovo modello di assistenza «non rogatoriale» — basato su una cooperazione diretta tra le giurisdizioni piuttosto che su una cooperazione tra governi — di cui vi è ampia traccia nella Convenzione di Bruxelles del 29-5-2000, sull’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati facenti parte dell’Unione europea, e nel relativo Protocollo addizionale del 16-10-2001. In questo quadro di iniziative si inserisce la previsione del nuovo strumento di cooperazione giudiziaria interstatuale previsto dalla decisione quadro 2008/978/GAI del Consiglio dell’Unione europea, denominato «mandato europeo di ricerca delle prove» (MER) e costruito attorno ad un’interpretazione alta del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, declinato sul complesso e delicato terreno della circolazione (acquisizione e successivo trasferimento) di dati probatori. Si tratta, infatti, di una nuova forma di assistenza «non rogatoriale», direttamente instaurabile tra le diverse autorità giudiziarie interessate — senza il «filtro» delle autorità centrali, che viene limitato ad una funzione di mero supporto tecnico-amministrativo (art. 8 dec. quadro) — al fine della ricerca ed acquisizione, ultra fines, di oggetti, documenti e dati potenzialmente utilizzabili, in chiave probatoria, all’interno di un procedimento penale, o della sola acquisizione di fonti probatorie già nella disponibilità delle autorità di esecuzione. A tale strumento l’Autore dedica - a conclusione del suo lavoro - un’approfondita analisi, non nascondendo le proprie perplessità in ordine alle potenzialità operative della procedura di consegna disciplinata dalla decisione quadro 2008/978/GAI, che paiono decisamente ridotte. È infatti difficile immaginare che il tradizionale sistema di assistenza giudiziaria in materia penale, basato su convenzioni bilaterali o multilaterali, possa essere rimpiazzato da uno strumento, come quello prefigurato dall’anzidetta decisione quadro, che, nel dare attuazione al principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, esclude dal suo raggio di azione — salvo che siano preesistenti all’e¬missione del mandato — le prove dichiarative, la prova scientifica, i risultati delle intercettazioni, i tabulati telefonici e telematici, vale a dire attività investigative ed istruttorie normalmente esperite attraverso gli strumenti dell’assistenza giudiziaria su base rogatoriale.
2009
9788859803867
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