La storiografia sull’impresa italiana può articolarsi in tre filoni esegetici, che corrispondono ad altrettante fasi evolutive del nostro capitalismo. Il primo - che si snoda dalla belle époque agli anni ’70 del Novecento - ha focalizzato l’indagine, in chiave macroeconomica e di performance comparata, sullo sviluppo della grande impresa e sui tentativi di imitazione e di catching-up volti a colmare il ritardo dell’Italia nei confronti dei first comers. Il secondo - riferito all’ultimo trentennio del XX secolo - facendo leva su un approccio insieme macro e micro-economico, ha posto al centro della riflessione lo studio delle formule produttive e organizzative adottate dalle imprese per far fronte alle più agguerrite forme di concorrenza internazionale inaugurate dagli schock petroliferi degli anni ’70: assume, nell’ambito di questo orientamento, un’assoluta centralità l’analisi scientifica dell’innovazione produttiva e organizzativa esemplificata dai sistemi distrettuali. Il terzo indirizzo - inerente ad una fase ancora in fieri - è impegnato a far luce sul declino industriale dell’Italia e sulle nuove strategie imprenditoriali per affrontare tale situazione e acquisire nuove basi competitive: rientra in questo contesto la fenomenologia del Made in Italy. In letteratura, si possono individuare due approcci esplicativi della nascita e dell’evoluzione del Made in Italy. Il primo, lo ha considerato un fenomeno relativamente recente, sviluppatosi in conseguenza di alcuni fattori accidentali, quali il basso costo del lavoro, l’emergere di un nuovo ceto imprenditoriale, il fiorire di alcuni stilisti e designer; il secondo, lo ha collocato nella cornice della lunga prospettiva della tradizione e della cultura italiane, per cui esso sarebbe il frutto di una cross fertilisation tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio, memorie storiche. In entrambi i casi, la scelta del Made in Italy si sarebbe posta, da un lato, come resistenza al nuovo e incapacità di confrontarsi con un nuovo paradigma che esigeva cambiamenti radicali dei metodi produttivi e dell’approccio al mercato, e, dall’altro, come presa di coscienza e valorizzazione delle peculiarità economiche e culturali della tradizione manifatturiera del nostro Paese. Mancate, infatti, le occasioni di sviluppo nelle nuove tecnologie, l’industria italiana avrebbe trovato la propria collocazione internazionale dando vita a un sistema eclettico, fondato sulla riqualificazione dei comparti produttivi tradizionali. Tuttavia, i pericoli che si annidano dietro queste chiavi di lettura sono quelli di cadere in una sindrome nazionalista o, all’opposto, di cedere ad una logica meramente difensiva, che vede nella valorizzazione del Made in Italy una sorta di sollievo alla decadenza delle grandi imprese. Per evitare i rischi sottesi a questi approcci, ed in specie quello di arroccarsi a difesa di mere nicchie di sopravvivenza, appaiono plausibili due comportamenti strategici, non in contrasto tra loro. Il primo, di abbandonare definitivamente le attività tradizionali del Made in Italy, per intraprendere in modo deciso il cammino dell’innovazione tecnologica, in chiave di innovation by interaction; il secondo, di affrontare il definitivo passaggio da una specializzazione manifatturiera a una specializzazione nel campo dei processi immateriali di produzione del valore, sulla base di configurazioni di imprese knowledge-based. In conclusione, riteniamo siano cinque le azioni di policy industriale da intraprendere per rispondere efficacemente alle sfide della concorrenza internazionale e per valorizzare definitivamente le produzioni Made in Italy: 1) rimuovere le inefficienze strutturali del «sistema-Paese»; 2) tutelare adeguatamente il Made in Italy, non solo in quanto prodotto ma anche come marchio collettivo di fatto dell’industria italiana; 3) favorire la crescita dimensionale delle imprese, per rimuovere i rischi del «nanismo» imprenditoriale; 4) promuovere l’internazionalizzazione delle imprese del Made in Italy ed una loro maggiore presenza nella distribuzione; 5) rilanciare ricerca e innovazione.

Il Made in Italy: una «via italiana» all’integrazione nella terza rivoluzione industriale?

SANTILLO, Marco
2009-01-01

Abstract

La storiografia sull’impresa italiana può articolarsi in tre filoni esegetici, che corrispondono ad altrettante fasi evolutive del nostro capitalismo. Il primo - che si snoda dalla belle époque agli anni ’70 del Novecento - ha focalizzato l’indagine, in chiave macroeconomica e di performance comparata, sullo sviluppo della grande impresa e sui tentativi di imitazione e di catching-up volti a colmare il ritardo dell’Italia nei confronti dei first comers. Il secondo - riferito all’ultimo trentennio del XX secolo - facendo leva su un approccio insieme macro e micro-economico, ha posto al centro della riflessione lo studio delle formule produttive e organizzative adottate dalle imprese per far fronte alle più agguerrite forme di concorrenza internazionale inaugurate dagli schock petroliferi degli anni ’70: assume, nell’ambito di questo orientamento, un’assoluta centralità l’analisi scientifica dell’innovazione produttiva e organizzativa esemplificata dai sistemi distrettuali. Il terzo indirizzo - inerente ad una fase ancora in fieri - è impegnato a far luce sul declino industriale dell’Italia e sulle nuove strategie imprenditoriali per affrontare tale situazione e acquisire nuove basi competitive: rientra in questo contesto la fenomenologia del Made in Italy. In letteratura, si possono individuare due approcci esplicativi della nascita e dell’evoluzione del Made in Italy. Il primo, lo ha considerato un fenomeno relativamente recente, sviluppatosi in conseguenza di alcuni fattori accidentali, quali il basso costo del lavoro, l’emergere di un nuovo ceto imprenditoriale, il fiorire di alcuni stilisti e designer; il secondo, lo ha collocato nella cornice della lunga prospettiva della tradizione e della cultura italiane, per cui esso sarebbe il frutto di una cross fertilisation tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio, memorie storiche. In entrambi i casi, la scelta del Made in Italy si sarebbe posta, da un lato, come resistenza al nuovo e incapacità di confrontarsi con un nuovo paradigma che esigeva cambiamenti radicali dei metodi produttivi e dell’approccio al mercato, e, dall’altro, come presa di coscienza e valorizzazione delle peculiarità economiche e culturali della tradizione manifatturiera del nostro Paese. Mancate, infatti, le occasioni di sviluppo nelle nuove tecnologie, l’industria italiana avrebbe trovato la propria collocazione internazionale dando vita a un sistema eclettico, fondato sulla riqualificazione dei comparti produttivi tradizionali. Tuttavia, i pericoli che si annidano dietro queste chiavi di lettura sono quelli di cadere in una sindrome nazionalista o, all’opposto, di cedere ad una logica meramente difensiva, che vede nella valorizzazione del Made in Italy una sorta di sollievo alla decadenza delle grandi imprese. Per evitare i rischi sottesi a questi approcci, ed in specie quello di arroccarsi a difesa di mere nicchie di sopravvivenza, appaiono plausibili due comportamenti strategici, non in contrasto tra loro. Il primo, di abbandonare definitivamente le attività tradizionali del Made in Italy, per intraprendere in modo deciso il cammino dell’innovazione tecnologica, in chiave di innovation by interaction; il secondo, di affrontare il definitivo passaggio da una specializzazione manifatturiera a una specializzazione nel campo dei processi immateriali di produzione del valore, sulla base di configurazioni di imprese knowledge-based. In conclusione, riteniamo siano cinque le azioni di policy industriale da intraprendere per rispondere efficacemente alle sfide della concorrenza internazionale e per valorizzare definitivamente le produzioni Made in Italy: 1) rimuovere le inefficienze strutturali del «sistema-Paese»; 2) tutelare adeguatamente il Made in Italy, non solo in quanto prodotto ma anche come marchio collettivo di fatto dell’industria italiana; 3) favorire la crescita dimensionale delle imprese, per rimuovere i rischi del «nanismo» imprenditoriale; 4) promuovere l’internazionalizzazione delle imprese del Made in Italy ed una loro maggiore presenza nella distribuzione; 5) rilanciare ricerca e innovazione.
2009
9788823842410
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/2295101
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