La tesi del contributo è duplice: avanzare qualche dubbio su quegli approcci teorico-interpretativi – e, in particolare, sul cd. giudizio per principi – per i quali, ai fini della legittimazione di una decisione giudiziaria, anche e soprattutto su 'casi difficili' – quelli che sollevano un profondo e radicale dissidio assiologico –, è determinante come si giunga a decidere anziché chi decida; conseguentemente, porre in luce un limite dell'ordinamento giudiziario italiano latamente inteso il quale, a causa del suo assetto procedurale, non permette al giudice, per così dire, 'naturale' dei 'casi difficili' (i.e., la Corte costituzionale) di esprimersi senza la sua attivazione da parte dei giudici comuni. La tesi è tematizzata attraverso l'analisi della vicenda giudiziaria – sia civile che penale – di Piergiorgio Welby. Il vuoto legislativo in materia di cd. scelte di fine vita ha obbligato i giudici a decidere sulla base dei soli principi costituzionali (in particolare, il principio del consenso a qualsiasi trattamento terapeutico e l'indisponibilità della vita); tuttavia, la mancanza di un in idem sentire, anche minimale, sulle stesse nel dibattito pubblico ha finito con il produrre tre provvedimenti giudiziari ognuno diverso dall'altro, il che ben dimostra quanto decisioni giudiziarie su casi 'difficili' non riescano ad essere giustificate solo sulla base di un dato dispositivo concettuale – come è, ad es., il cd. giudizio 'per principi' –, che dia scarso peso teorico alla 'persona' dell’interprete e sul cui corretto uso poter accollare la relativa responsabilità decisionale, ma solo attraverso una legittimazione che dia adeguato conto dell'identità politica del 'soggetto' decidente e a cui legare la connessa responsabilità per la loro adozione. Al contempo, nessuno dei giudici coinvolti nella vicenda si è sentito in dovere di chiamare in causa il 'soggetto' decidente più qualificato per decisioni del genere, proprio per la sua particolare identità politico-costituzionale – ovvero la Consulta –, sebbene tutti riconoscessero in linea di principio il diritto costituzionale di rifiutare le cure persino con esito fatale per la propria esistenza ed anche in contrasto con la legislazione ordinaria di segno opposto. Emerge in tal modo un aspetto critico del sistema giudiziario italiano, che si dice abbia la propria identità politico-istituzionale, se non proprio giuridico-dogmatica, nella tutela e implementazione dei diritti fondamentali e che, invece, è congegnato in maniera tale da impedire – al contrario di molti altri ordinamenti giudiziari – ad uno dei suoi giudici supremi e comunque a quello più qualificato sul punto di decidere in materia, giacché senza collaborazione dei giudici comuni la Corte non ha modo di pronunciarsi.

La vicenda giudiziaria di Piergiorgio Welby ovvero dei casi difficili: come si decidono? o: chi li decide?

BISOGNI, GIOVANNI
2010-01-01

Abstract

La tesi del contributo è duplice: avanzare qualche dubbio su quegli approcci teorico-interpretativi – e, in particolare, sul cd. giudizio per principi – per i quali, ai fini della legittimazione di una decisione giudiziaria, anche e soprattutto su 'casi difficili' – quelli che sollevano un profondo e radicale dissidio assiologico –, è determinante come si giunga a decidere anziché chi decida; conseguentemente, porre in luce un limite dell'ordinamento giudiziario italiano latamente inteso il quale, a causa del suo assetto procedurale, non permette al giudice, per così dire, 'naturale' dei 'casi difficili' (i.e., la Corte costituzionale) di esprimersi senza la sua attivazione da parte dei giudici comuni. La tesi è tematizzata attraverso l'analisi della vicenda giudiziaria – sia civile che penale – di Piergiorgio Welby. Il vuoto legislativo in materia di cd. scelte di fine vita ha obbligato i giudici a decidere sulla base dei soli principi costituzionali (in particolare, il principio del consenso a qualsiasi trattamento terapeutico e l'indisponibilità della vita); tuttavia, la mancanza di un in idem sentire, anche minimale, sulle stesse nel dibattito pubblico ha finito con il produrre tre provvedimenti giudiziari ognuno diverso dall'altro, il che ben dimostra quanto decisioni giudiziarie su casi 'difficili' non riescano ad essere giustificate solo sulla base di un dato dispositivo concettuale – come è, ad es., il cd. giudizio 'per principi' –, che dia scarso peso teorico alla 'persona' dell’interprete e sul cui corretto uso poter accollare la relativa responsabilità decisionale, ma solo attraverso una legittimazione che dia adeguato conto dell'identità politica del 'soggetto' decidente e a cui legare la connessa responsabilità per la loro adozione. Al contempo, nessuno dei giudici coinvolti nella vicenda si è sentito in dovere di chiamare in causa il 'soggetto' decidente più qualificato per decisioni del genere, proprio per la sua particolare identità politico-costituzionale – ovvero la Consulta –, sebbene tutti riconoscessero in linea di principio il diritto costituzionale di rifiutare le cure persino con esito fatale per la propria esistenza ed anche in contrasto con la legislazione ordinaria di segno opposto. Emerge in tal modo un aspetto critico del sistema giudiziario italiano, che si dice abbia la propria identità politico-istituzionale, se non proprio giuridico-dogmatica, nella tutela e implementazione dei diritti fondamentali e che, invece, è congegnato in maniera tale da impedire – al contrario di molti altri ordinamenti giudiziari – ad uno dei suoi giudici supremi e comunque a quello più qualificato sul punto di decidere in materia, giacché senza collaborazione dei giudici comuni la Corte non ha modo di pronunciarsi.
2010
9788863422016
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/3015995
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