L’obbiettivo fondamentale di questo lavoro è di mettere in evidenza alcuni punti metodologici, preliminari per la costruzione di un frame work teorico che sia adatto tanto a spiegare il nesso volontariato-sviluppo, quanto a decodificare le differenze con cui tale nesso si realizza e muta in specifici contesti territoriali: il riferimento è alle questioni del Mezzogiorno. L’approccio allo sviluppo adottato è quello relazionale (Woolckock, 2007; Zamagni, 2011). Le lenti teoriche sono quelle della moderna economia dello sviluppo (Ray, 1998): le differenze osservate vengono considerate come equilibri (multipli), buoni o cattivi, per cui contano il peso inerziale della storia (la cultura, le istituzioni passate ecc) oppure la natura delle aspettative e delle preferenze individuali, (“pessimistica” o “ottimistica”) nonché gli esiti delle interazioni, e cioè le esternalità, virtuose o viziose (ad esempio, il coordinamento e la cooperazione, il trust, la fiducia reciproca e congiuntamente la propensione ad aprire nuovi mercati e ad utilizzare risorse non sfruttate… , o il loro fallimento). Un primo punto metodologico è che le suddette differenze territoriali, osservabili a livello macro, riflettono sia (i) i modi in cui si combinano ed evolvono le dotazioni strutturali e le caratteristiche infrastrutturali di un sistema (Lin, 2009; Nelson e Sampat, 2001), sia (ii) il design e l’implementazione della policy che promuove (oppure no) la compatibilità tra le condizioni/finalità della produzione materiale e quelle della riproduzione sociale. Un secondo punto (legato a (ii)) è che se la metrica dello sviluppo, ormai ampiamente condivisa, è quella multidimensionale, e se il miglioramento delle condizioni di vita delle persone, perseguito in un’ottica egualitaria, è un obbiettivo per sé (Ravallion, 2007; Ocse, 2011), allora le preferenze sociali non sono considerate più motivazioni extra-economiche o “anomalie”. Esse sono, piuttosto, costitutive del funzionamento di un sistema, in quanto costitutive delle “identità” degli agenti, che a loro volta sono condizionate dal contesto (Akerlof e Kranton, 2010). In particolare, le virtù civiche possono essere considerate come un micro fondamento dell’ approccio relazionale allo sviluppo. Un terzo punto è che, allora, il volontariato - in quanto concorre a formare, accumulare e trasmettere norme pro-sociali (cultura della cooperazione, fiducia nella legge, affidabilità reciproca, altruismo, dignità, avversione a comportamenti opportunistici e di rendita,ecc) - diventa una istituzione (Aoki, 2003) a livello mesoeconomico, saliente per il funzionamento di un assetto istituzionale di qualità. e cioè pro-sviluppo (Garofalo et al., 2010). Se le cose stanno così, allora il volontariato serve a promuovere e a far rispettare la compatibilità tra le regole per la (re)distribuzione del potere de facto in una comunità e quelle de jure (Acemoglu, 2009). Questi tre punti sembrano coerenti con il ruolo del volontariato nella cittadinanza attiva ovvero con un policy-making evolutivo (Witt, 2003), implementato per definire e negoziare la funzione di benessere della collettività, per incidere, ad esempio, sulla struttura dell’offerta a fronte di una mutata composizione della domanda nel periodo della crisi (il quarto punto). Una implicazione sintetica che deriva da questi quattro punti metodologici è che le preferenze prosociali, che attivano la produzione di beni relazionali e la cura dei beni comuni – peculiari del volontariato – sono rilevanti per lo sviluppo a patto che si verificano due condizioni: la prima è che esse siano persistenti nel tempo (il cambiamento culturale è un fenomeno di lungo periodo), e la seconda è che esse siano condivise all’interno di una popolazione (la diffusione genera esternalità positive e rendimenti crescenti). Il volontariato diventa, allora, una voce del capitale civico, poiché il suo impatto propulsivo sullo sviluppo si attiva solo a partire da una certa “soglia critica” (Azariadis, 1995). In altri termini, il volontariato diventa una istituzione saliente a livello meso sia in quanto retroagisce sulle motivazioni soggettive in una popolazione, sia in quanto sostiene un sentiero di cambiamento in cui al benessere individuale corrispondono effettive capability e in cui, soprattutto, si riescono ad attivare capability “fertilizzanti” e a spiazzare quelle “corrosive”. (Nussbaum, 2006). L’idea sottostante alla costruzione del framework teorico è che il nesso volontariato-sviluppo sia, come si usa dire, un nesso lungo (contano le motivazioni soggettive e la loro formazione, gli effetti di spiazzamento o di spillovers tra le motivazioni, la cultura e la sua assimilazione o diffusione in una popolazione, l’ assetto regolamentare, la produzione e la cura di beni comuni e relazionali: un pezzo consistente di capitale civico, Guiso et al., 2011) e stretto (contano le caratteristiche della struttura produttiva, la composizione demografica, il funzionamento del mercato del lavoro, il livello di prosperità, la distribuzione del reddito ed il modello di welfare). Il nesso non è lineare e gli esiti non sono univoci: lo schema della causazione cumulativa (Hirschman, 1956) sembra, pertanto, una buona soluzione semplificativa, poiché consente di individuare la forza trainante ed i meccanismi propagatori nel processo di cambiamento. Sulla base della precedente riflessione metodologica, si derivano due gli obbiettivi specifici: il primo è quello di selezionare dalla teoria delle preferenze sociali, della moderna economia dello sviluppo e della nuova economia istituzionale – sebbene esse non siano state elaborate con riferimento al volontariato – ipotesi, meccanismi e casi che costituiscono gli elementi del framework teorico da costruire. Il secondo obbiettivo è quello di provare a riferire questo nesso alle questioni del Mezzogiorno: il nesso volontariato-sviluppo - che si colloca nella letteratura su divari di capitale sociale e divari di sviluppo (a partire dal ben noto contributo di Putnam, 1993; Banca d’Italia, 2009; Barca, 2009; De Blasio e Sestito, 2011) – viene interpretato con le lenti teoriche delle trappole della povertà economica, sociale ed istituzionale (Bowles et al., 2006), modificabili attraverso “novità”virtuose introdotte dal volontariato (Garofalo et al., 2010). Il lavoro lascia aperte alcune questioni metodologiche, relative (i) alla rilevanza della costruzione di un framework teorico (Douglass, 1986; North e Denzau, 1996), (ii) alla congruenza tra il livello territoriale di indagine (da arricchire anche con analisi comparate), che fornisce informazioni di dettaglio sui legami tra le azioni micro, da un lato, e le misure di policy sociale, che si perseguono come strumento dello sviluppo, da un altro lato (Banereeje, 2009), e (iii) al ruolo dell’intervento pubblico in un assetto in cui il volontariato può giocare come un’istituzione saliente (Duflo, 2010).

Il volontariato può sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno?Relazione presentata al Convegno per l'Anno europeo del volontariato, ISFOL e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Catania

GAROFALO, Maria Rosaria
2011-01-01

Abstract

L’obbiettivo fondamentale di questo lavoro è di mettere in evidenza alcuni punti metodologici, preliminari per la costruzione di un frame work teorico che sia adatto tanto a spiegare il nesso volontariato-sviluppo, quanto a decodificare le differenze con cui tale nesso si realizza e muta in specifici contesti territoriali: il riferimento è alle questioni del Mezzogiorno. L’approccio allo sviluppo adottato è quello relazionale (Woolckock, 2007; Zamagni, 2011). Le lenti teoriche sono quelle della moderna economia dello sviluppo (Ray, 1998): le differenze osservate vengono considerate come equilibri (multipli), buoni o cattivi, per cui contano il peso inerziale della storia (la cultura, le istituzioni passate ecc) oppure la natura delle aspettative e delle preferenze individuali, (“pessimistica” o “ottimistica”) nonché gli esiti delle interazioni, e cioè le esternalità, virtuose o viziose (ad esempio, il coordinamento e la cooperazione, il trust, la fiducia reciproca e congiuntamente la propensione ad aprire nuovi mercati e ad utilizzare risorse non sfruttate… , o il loro fallimento). Un primo punto metodologico è che le suddette differenze territoriali, osservabili a livello macro, riflettono sia (i) i modi in cui si combinano ed evolvono le dotazioni strutturali e le caratteristiche infrastrutturali di un sistema (Lin, 2009; Nelson e Sampat, 2001), sia (ii) il design e l’implementazione della policy che promuove (oppure no) la compatibilità tra le condizioni/finalità della produzione materiale e quelle della riproduzione sociale. Un secondo punto (legato a (ii)) è che se la metrica dello sviluppo, ormai ampiamente condivisa, è quella multidimensionale, e se il miglioramento delle condizioni di vita delle persone, perseguito in un’ottica egualitaria, è un obbiettivo per sé (Ravallion, 2007; Ocse, 2011), allora le preferenze sociali non sono considerate più motivazioni extra-economiche o “anomalie”. Esse sono, piuttosto, costitutive del funzionamento di un sistema, in quanto costitutive delle “identità” degli agenti, che a loro volta sono condizionate dal contesto (Akerlof e Kranton, 2010). In particolare, le virtù civiche possono essere considerate come un micro fondamento dell’ approccio relazionale allo sviluppo. Un terzo punto è che, allora, il volontariato - in quanto concorre a formare, accumulare e trasmettere norme pro-sociali (cultura della cooperazione, fiducia nella legge, affidabilità reciproca, altruismo, dignità, avversione a comportamenti opportunistici e di rendita,ecc) - diventa una istituzione (Aoki, 2003) a livello mesoeconomico, saliente per il funzionamento di un assetto istituzionale di qualità. e cioè pro-sviluppo (Garofalo et al., 2010). Se le cose stanno così, allora il volontariato serve a promuovere e a far rispettare la compatibilità tra le regole per la (re)distribuzione del potere de facto in una comunità e quelle de jure (Acemoglu, 2009). Questi tre punti sembrano coerenti con il ruolo del volontariato nella cittadinanza attiva ovvero con un policy-making evolutivo (Witt, 2003), implementato per definire e negoziare la funzione di benessere della collettività, per incidere, ad esempio, sulla struttura dell’offerta a fronte di una mutata composizione della domanda nel periodo della crisi (il quarto punto). Una implicazione sintetica che deriva da questi quattro punti metodologici è che le preferenze prosociali, che attivano la produzione di beni relazionali e la cura dei beni comuni – peculiari del volontariato – sono rilevanti per lo sviluppo a patto che si verificano due condizioni: la prima è che esse siano persistenti nel tempo (il cambiamento culturale è un fenomeno di lungo periodo), e la seconda è che esse siano condivise all’interno di una popolazione (la diffusione genera esternalità positive e rendimenti crescenti). Il volontariato diventa, allora, una voce del capitale civico, poiché il suo impatto propulsivo sullo sviluppo si attiva solo a partire da una certa “soglia critica” (Azariadis, 1995). In altri termini, il volontariato diventa una istituzione saliente a livello meso sia in quanto retroagisce sulle motivazioni soggettive in una popolazione, sia in quanto sostiene un sentiero di cambiamento in cui al benessere individuale corrispondono effettive capability e in cui, soprattutto, si riescono ad attivare capability “fertilizzanti” e a spiazzare quelle “corrosive”. (Nussbaum, 2006). L’idea sottostante alla costruzione del framework teorico è che il nesso volontariato-sviluppo sia, come si usa dire, un nesso lungo (contano le motivazioni soggettive e la loro formazione, gli effetti di spiazzamento o di spillovers tra le motivazioni, la cultura e la sua assimilazione o diffusione in una popolazione, l’ assetto regolamentare, la produzione e la cura di beni comuni e relazionali: un pezzo consistente di capitale civico, Guiso et al., 2011) e stretto (contano le caratteristiche della struttura produttiva, la composizione demografica, il funzionamento del mercato del lavoro, il livello di prosperità, la distribuzione del reddito ed il modello di welfare). Il nesso non è lineare e gli esiti non sono univoci: lo schema della causazione cumulativa (Hirschman, 1956) sembra, pertanto, una buona soluzione semplificativa, poiché consente di individuare la forza trainante ed i meccanismi propagatori nel processo di cambiamento. Sulla base della precedente riflessione metodologica, si derivano due gli obbiettivi specifici: il primo è quello di selezionare dalla teoria delle preferenze sociali, della moderna economia dello sviluppo e della nuova economia istituzionale – sebbene esse non siano state elaborate con riferimento al volontariato – ipotesi, meccanismi e casi che costituiscono gli elementi del framework teorico da costruire. Il secondo obbiettivo è quello di provare a riferire questo nesso alle questioni del Mezzogiorno: il nesso volontariato-sviluppo - che si colloca nella letteratura su divari di capitale sociale e divari di sviluppo (a partire dal ben noto contributo di Putnam, 1993; Banca d’Italia, 2009; Barca, 2009; De Blasio e Sestito, 2011) – viene interpretato con le lenti teoriche delle trappole della povertà economica, sociale ed istituzionale (Bowles et al., 2006), modificabili attraverso “novità”virtuose introdotte dal volontariato (Garofalo et al., 2010). Il lavoro lascia aperte alcune questioni metodologiche, relative (i) alla rilevanza della costruzione di un framework teorico (Douglass, 1986; North e Denzau, 1996), (ii) alla congruenza tra il livello territoriale di indagine (da arricchire anche con analisi comparate), che fornisce informazioni di dettaglio sui legami tra le azioni micro, da un lato, e le misure di policy sociale, che si perseguono come strumento dello sviluppo, da un altro lato (Banereeje, 2009), e (iii) al ruolo dell’intervento pubblico in un assetto in cui il volontariato può giocare come un’istituzione saliente (Duflo, 2010).
2011
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/3081657
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