Nel marzo del 2011 la centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, è teatro di una serie di incidenti devastanti, innescati dagli effetti di un terremoto e di uno tsunami. Le conseguenze del disastro sono enormi: la contaminazione delle aree geografiche attigue e degli esseri viventi avrà ripercussioni a catena sulla salute e sulla vita di intere generazioni future, per un periodo di tempo che si prevede molto lungo. L’eco della tragedia giapponese si è sparsa un po’ ovunque, orientando dibattiti, manifestazioni di protesta, iniziative legislative e consultazioni referendarie relative alla gestione o alla rinuncia all’impiego dell’energia nucleare. Anche in Italia, a maggior ragione in virtù dell’imminenza di un referendum contro la possibilità di costruire impianti nucleari, si è assistito a discussioni e dispute di varia natura, che hanno affollato giornali, TV e siti internet. Politici, scienziati, economisti, ma anche opinionisti di ogni sorta e non sempre all’altezza, hanno dibattuto con toni spesso animati e discordanti su questioni gravose e impegnative: la sicurezza delle centrali di nuova generazione, il vantaggio economico del nucleare, la plausibilità di fonti di energia alternativa. Ma il nucleare non è l’unica ragione di preoccupazione sociale. Basta aprire un quotidiano per leggere, ad esempio, di crisi economiche o finanziarie, con riflessi notevoli sull’esistenza delle aziende o sull’occupazione. E, anche in questo caso, i pareri degli esperti danno il quadro di interpretazioni molteplici e non sempre concordi. Volta per volta, si chiama in causa la scarsa crescita dell’economia nazionale, la concorrenza sleale della manodopera a basso costo in alcuni Paesi stranieri, l’insondabile mercato globale o la Borsa con i suoi capricci inafferrabili, la politica fiscale – a seconda delle opinioni – esagerata o inefficace, l’eccesso di “lacci e laccioli” legislativi o amministrativi per l’imprenditoria, l’incapacità di rilanciare i consumi in virtù delle condizioni difficili dell’occupazione, ecc. A tutto ciò si aggiunge la paura del terrorismo internazionale, che in modo intermittente ogni tanto si presenta all’attenzione collettiva come corollario degli eventi politici o bellici mondiali. La possibilità che noi o un nostro caro possiamo cadere vittime di un attentato terroristico può, in effetti, essere fonte di un corposo senso di inquietudine. Insomma, ci sembra, specie in virtù della vivace risonanza più o meno legittima che certi temi hanno sui media, che la nostra vita sia costellata di rischi tipici del nostro tempo. Si tratta di minacce di respiro mondiale frutto dell’operato umano, difficili da quantificare e da interpretare. E, nonostante i sempre più abbondanti pareri degli esperti, i dati statistici snocciolati, le previsioni e le valutazioni che reclamano validità scientifica, la situazione ci sembra più indecifrabile che mai. La persistenza e l’impatto che queste forze minacciose sembrano avere sulla nostra quotidianità ci inducono a domandarci, sulla scorta delle riflessioni del sociologo tedesco Ulrich Beck, se la nostra è una vera e propria società del rischio (Beck, 2000, 2011). Proprio le tesi di Beck, opportunamente corredate da ulteriori e differenti rilievi teorici, saranno la spina dorsale dei ragionamenti qui proposti sulla società contemporanea.

Rischio

BIFULCO, LUCA
2012-01-01

Abstract

Nel marzo del 2011 la centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, è teatro di una serie di incidenti devastanti, innescati dagli effetti di un terremoto e di uno tsunami. Le conseguenze del disastro sono enormi: la contaminazione delle aree geografiche attigue e degli esseri viventi avrà ripercussioni a catena sulla salute e sulla vita di intere generazioni future, per un periodo di tempo che si prevede molto lungo. L’eco della tragedia giapponese si è sparsa un po’ ovunque, orientando dibattiti, manifestazioni di protesta, iniziative legislative e consultazioni referendarie relative alla gestione o alla rinuncia all’impiego dell’energia nucleare. Anche in Italia, a maggior ragione in virtù dell’imminenza di un referendum contro la possibilità di costruire impianti nucleari, si è assistito a discussioni e dispute di varia natura, che hanno affollato giornali, TV e siti internet. Politici, scienziati, economisti, ma anche opinionisti di ogni sorta e non sempre all’altezza, hanno dibattuto con toni spesso animati e discordanti su questioni gravose e impegnative: la sicurezza delle centrali di nuova generazione, il vantaggio economico del nucleare, la plausibilità di fonti di energia alternativa. Ma il nucleare non è l’unica ragione di preoccupazione sociale. Basta aprire un quotidiano per leggere, ad esempio, di crisi economiche o finanziarie, con riflessi notevoli sull’esistenza delle aziende o sull’occupazione. E, anche in questo caso, i pareri degli esperti danno il quadro di interpretazioni molteplici e non sempre concordi. Volta per volta, si chiama in causa la scarsa crescita dell’economia nazionale, la concorrenza sleale della manodopera a basso costo in alcuni Paesi stranieri, l’insondabile mercato globale o la Borsa con i suoi capricci inafferrabili, la politica fiscale – a seconda delle opinioni – esagerata o inefficace, l’eccesso di “lacci e laccioli” legislativi o amministrativi per l’imprenditoria, l’incapacità di rilanciare i consumi in virtù delle condizioni difficili dell’occupazione, ecc. A tutto ciò si aggiunge la paura del terrorismo internazionale, che in modo intermittente ogni tanto si presenta all’attenzione collettiva come corollario degli eventi politici o bellici mondiali. La possibilità che noi o un nostro caro possiamo cadere vittime di un attentato terroristico può, in effetti, essere fonte di un corposo senso di inquietudine. Insomma, ci sembra, specie in virtù della vivace risonanza più o meno legittima che certi temi hanno sui media, che la nostra vita sia costellata di rischi tipici del nostro tempo. Si tratta di minacce di respiro mondiale frutto dell’operato umano, difficili da quantificare e da interpretare. E, nonostante i sempre più abbondanti pareri degli esperti, i dati statistici snocciolati, le previsioni e le valutazioni che reclamano validità scientifica, la situazione ci sembra più indecifrabile che mai. La persistenza e l’impatto che queste forze minacciose sembrano avere sulla nostra quotidianità ci inducono a domandarci, sulla scorta delle riflessioni del sociologo tedesco Ulrich Beck, se la nostra è una vera e propria società del rischio (Beck, 2000, 2011). Proprio le tesi di Beck, opportunamente corredate da ulteriori e differenti rilievi teorici, saranno la spina dorsale dei ragionamenti qui proposti sulla società contemporanea.
2012
9788897647058
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/3201077
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