Sportività formativa: una prospettiva ermeneutica nella didattica di Laura Clarizia L’ipotesi di lavoro da cui nascono le presenti riflessioni prende avvio dal medesimo significato ritrovato all’interno delle dinamiche evolutive/identitarie che strutturano il gioco, lo sport e il tifo: dal gioco infantile, liberamente competitivo e luogo di graduale costruzione dell’io, allo sport, al tifo, alla costante competizione esistenziale che caratterizza la vita, in una continuità ideale di libera e creativa tensione ludica; e la sportività formativa proposta è rintracciabile all’interno di una sorta di metafora ermeneutica, educativamente proponibile nella didattica motoria e sportiva: dal gioco allo sport, al tifo (e alla costitutiva vitalistica competizione nei contesti significativi), continuando a giocare. È nel gioco infantile, infatti, che traggono origine le dinamiche intrapsichiche che gradualmente strutturano l’io; l’area ludica dell’attività psicomotoria infantile è il luogo (spontaneo, creativo, flessibile, liberamente competitivo) di formazione dell’io e della sua identità, luogo transizionale (Winnicott, 1971), attraverso il quale accedere alla comunicazione con sé e con gli altri, al reciproco sano riconoscimento. L’attività ludico-motoria infantile è quello spazio potenziale di universale transizionalità tra realtà interna e realtà esterna che potrà consentire un possibile (sano) dinamico e creativo rapporto tra l’io e la realtà sociale e culturale, tra le dinamiche intrapsichiche della propria realtà interna e le relazioni interpersonali della realtà esterna (Winnicott, 1971). Secondo l’ipotesi proposta, qualsiasi didattica motoria e sportiva dovrebbe essere costantemente attraversata da una medesima direzione di senso, da un’ermeneuticità che riconosca nella ludicità il senso dell’attività motoria e sportiva, in una potenziale promozione dei valori della sportività. Di qui il consapevole (formativo) riconoscimento che la violenza che spesso accompagna il tifo e, naturalmente, è spesso presente anche in attività ludico-motorie e sportive, è un’interruzione proprio della sequenza gioco→sport→tifo, attraverso l’emergere di un implicito messaggio meta-comunicativo: questo non è più un gioco; l’assenza di ludicità nel gioco violento (nello sport violento, nel tifo violento) sottrae anche totalmente senso a qualsiasi comportamento violento, interpersonale-intergruppale, nell’esistenza umana. La metafora ermeneutica proposta, quale implicita ermeneutica fondazione della didattica motoria, (dal gioco allo sport e al tifo, continuando a giocare) ha guidato precedenti ricerche già pubblicate (Clarizia, 2008), dall’analisi dei cui dati emerge che gioco, sport e tifo possono contribuire in modo significativo, per tutta la vita, a costruire e rinforzare l’identità personale. Con l’ingresso nella preadolescenza, in particolare, il nucleo esperienziale ludico-motorio che aveva portato il bambino a correre, saltare, arrampicarsi, muoversi, divertendosi, anche isolatamente, si incontra con emergenti nuove esigenze socio-relazionali e affettive, con dinamismi evolutivi profondi, con tendenze contraddittorie e tensioni progettuali verso il futuro e, non raramente, con nodi problematici (COSPES, 1986). È soprattutto in questa delicata fase evolutiva, tra la preadolescenza e l’adolescenza, che il persistente interesse per il gioco e lo sport, educativamente orientato, può diventare lo spazio maturativo della personalità, il luogo didattico-educativo di una costruzione identitaria ludicamente non violenta. Bambini, giovani e adulti sono costantemente attratti verso il gioco, lo sport e il tifo, scorgendovi spesso una risposta elettiva alla consuetudine e alle ripetitività quotidiane; le relazioni ludiche, infatti, sono apicalità presenti nell’esistenza di tutti, come le relazioni affettive, operative e le relazioni con la stessa morte (Demetrio, 1999). In particolare, il calcio, lo stadio, il tifo sembrano configurarsi come contrappeso alle banalità e regolarità del quotidiano, come mezzo di evasione dalle abituali costrizioni e, non raramente, l'evento della partita di calcio diventa un giorno di festa, in cui il sentimento della festa si esprime nella gioiosità, nel senso di libertà dagli adempimenti consueti, nella rimozione dall'angoscia dell'invecchiamento, nella felice regressione verso anni infantili e adolescenziali. La ludicità va, dunque, riconosciuta nel suo carattere esistenziale profondo e nella connessa possibilità che sia attraversata da forti emozionalità, con l’implicito costante rischio, all’interno di costrutti identitari non maturi, di una riduzione dei freni inibitori, di una possibile limitazione (o di un annullamento) della funzione regolativa della ragione. La possibilità che l’attività motoria e sportiva (e il connesso tifo) svolgano una funzione positiva nella costruzione di identità non violente non può essere, dunque, attesa da una spontanea evoluzione (individuale/sociale) delle dinamiche identitarie, ma può essere pedagogicamente/operativamente proposta all’interno di vari luoghi sociali del quotidiano aggregativo: in contesti prevalentemente, ma non solo, ludico-sportivi, quali centri sportivi, centri ricreativi e del tempo libero, ludoteche, palestre; e in contesti prevalentemente, ma non solo evolutivi e/o istituzionalmente educativi, quali le scuole di ogni ordine e grado. Da tempo è stato evidenziato (Lanza et alii, 1988) come la pratica sportiva a livello agonistico incida positivamente sull’identità personale dei soggetti in età evolutiva, attraverso una maggior accettazione e fiducia in se stessi, che può favorire, in preadolescenti e adolescenti, la costanza e la responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi. Questa capacità di sviluppare le tensioni giuste per vincere o per opporsi a resistenze esterne o interne, trasferita sugli altri piani dell’esistenza o in altri contesti esperienziali, potrà essere molto più di una canalizzazione sociale dell’aggressività, secondo la comune lettura etologica e psicoanalitica, per diventare piuttosto un investimento positivo delle forze istintuali a vantaggio dello schema corporeo e, soprattutto, dell’identità personale. In questo senso, se pure, nelle prospettive etologica e psicoanalitica, viene privilegiata, nel gioco competitivo-agonistico, la funzione di canalizzare una sorta di aggressività intraspecifica innata, in altra direzione ci porta la distinzione, osservata in alcune fondamentali ricerche empiriche, tra zuffa gioiosa e comportamento ostile aggressivo. L’osservazione sperimentale di bambini tra i tre e i cinque anni (Blurton-Jones, 1972 1975 1980) ha, infatti, consentito di distinguere tra il gioco turbolento o di zuffa e il comportamento ostile o aggressivo, caratterizzato da litigi e baruffe. Il gioco turbolento o di zuffa, al contrario, continua a presentare alcune caratteristiche che lo confermano come gioco sociale: frequente alternarsi dei ruoli inseguitore/inseguito, assenza di posture minacciose, lotta gioiosa, riso, salti a piedi uniti, faccia ludica (Hinde, 1974). Tra i bambini, soprattutto in quelli più grandi, nel gioco (sociale) di lotta-zuffa, non compaiono mai il pugno, la percossa, lo sguardo irato, l’espressione corrucciata, il viso arrossato, che sono, invece, i segnali inequivocabili del comportamento aggressivo. Queste riflessioni sul potenziale ruolo sociale di questo tipo di gioco infantile (turbolento e competitivo) ci porta a integrare il punto di vista psicobiologico (psicoanalitico ed etologico), riconoscendo che lo sport (gioco competitivo sociale) non è solo (o non è tanto) una delle modalità in cui le comunità umane hanno appreso a esprimere, sublimandola, l’energia istintuale di natura aggressiva, ma ha una implicita funzione identitaria. Anche nel tifo, d’altra parte, si coglie il tentativo di superare un’anonima invisibilità, di accedere ad una visibilità negata nella vita sociale (Bromberger, 1999, 27), visibilità, in qualche modo, veicolata dai tifosi attraverso cori, striscioni, coreografie, bandiere…, modalità attraverso le quali il singolo tifoso o il suo gruppo può essere riconosciuto e contare, oltre la curva e la stessa città (Dal Lago, 2001, 41). Educare alla sportività significa educare al riconoscimento, in ogni circostanza della vita che implichi una competizione, del valore della propria persona e di quella dell’altro; significa educare ad una competizione che dia senso e significato all’esistenza, a promuovere un’identità caratterizzata da un atteggiamento interpersonale e intragruppale corretto e leale, sia che si competa direttamente in una gara sportiva sia che vi si assista, da tifoso. Gioco, sport e tifo, riconosciuti nell’implicita costante funzione di costruttori d’identità, possono, all’interno di una progettazione didattica, diventare costruttori di identità non violente. Dall’analisi empirica dei risultati della già citata ricerca (Clarizia, 2008) risulta, infatti, confermata l’ipotesi per la quale l’educazione allo sport e al tifo può svolgere una funzione protettiva rispetto all’assunzione di atteggiamenti/comportamenti violenti, in qualche modo connessi ad un’adesione totale, esclusiva e acritica ad un ideale di gruppo e/o individuale. L’idea di sportività formativa che propongo si aggancia ad un progetto di ricerca-intervento-formazione che, dapprima limitato ad un campione significativo di scuole e di centri aggregativi selezionati (prevalentemente sportivi), presenti sul nostro territorio, aspira ad una ben più ampia finalità: una finalità di tipo preventivo/educativo/rieducativo rispetto a possibili degenerazioni comportamentali correlabili all’adesione, totalizzante ed esclusiva, ad un ideale sportivo (tifo violento), ma rinvenibili anche in molte dinamiche di confronto interpersonale o intergruppale (bullismo…). All’interno di tale ipotesi, una finalità educativa ampia e generale è individuabile nella possibilità di avviare concretamente, in vari luoghi sociali di educazione-formazione (infantile e giovanile) e di aggregazione sportiva e tifistica (anche in una prospettiva di lifelong learning), un programma di intervento preventivo di primo, secondo e terzo livello, rispetto al conflitto e alla violenza interpersonale/intragruppale. Le motivazioni sono rinvenibili, oltre che all’interno di un produttivo interesse per un approfondimento e una verifica sperimentale di quanto già emerso, anche nella riconosciuta centralità della dimensione sportiva e del tifo connesso, così come recentemente evidenziato dal Ministero della Pubblica Istruzione. In una nota ministeriale del 2007 si legge: La scuola dell’autonomia, oltre a consentire ai giovani l’opportunità di praticare in maniera sana lo sport, può contribuire ad accrescere, mediante approcci interdisciplinari, la consapevolezza e il senso critico riguardo le diverse forme di violenza, comprese quelle che adottano come pretesto le manifestazioni sportive. La scuola deve contribuire a promuovere una corretta concezione dell'educazione motoria e delle attività sportive costituendo una alternativa culturale alla violenza, all’esasperazione del risultato, alla slealtà (Miur, Roma 2007). La Scuola è, dunque, particolarmente attenta all’educazione corporea, sottolineando, nella sua legislazione, che nell’attività sportiva si possono realizzare importanti obiettivi educativi e si possono, in particolare, acquisire competenze indispensabili quali il dominio di sé, il senso della solidarietà, la capacità di collaborare per un fine comune, la valorizzazione del ruolo di tutti ed il rispetto del ruolo di ciascuno (Miur, Roma 2007). A patto, tuttavia, di conservare la strutturale dimensione ludica dello sport, evoluzione socio-culturale del gioco competitivo con regole, in cui l’avversario, pur indossando una diversa maglia o facendo un tifo in altra direzione, è l’altro giocatore, è l’altro che partecipa dello stesso gioco competitivo. Nel rapporto tra tifo e mondo sportivo emerge la necessità di una progettualità educativa consapevole che ponga al centro la creazione del “nuovo sportivo”, che, sia nel ruolo di praticante che in quello di spettatore, ristabilisca l’equilibrio tra il piacere e la passione, riproponendo un ritorno ad una dimensione competitiva e aggregativa responsabile e consapevole. Nella condivisione della finalità ministeriale, per la quale appare necessario acquisire un approccio all’esperienza sportiva in cui l’enfasi venga posta sull’intero processo di costruzione della personalità più che sulla prestazione, al fine di favorire tra le giovani generazioni la trasmissione dei corretti valori dello sport che li allontanino da ogni forma di tifo violento (Miur, Roma 2007), la ricerca che stiamo attualmente realizzando si pone un duplice obiettivo, secondo due ordini di modalità e di destinatari: il primo, di tipo educativo-preventivo rivolto a bambini e adolescenti, così che, attraverso percorsi educativi specifici, possano acquisire una cultura educativa-sportiva consapevole; il secondo di tipo formativo-metodologico-operativo, rivolto ad insegnanti, educatori sportivi, allenatori, genitori, altri adulti significativi presenti nei contesti selezionati, al fine di formare adulti motivati e competenti nella progettazione di interventi che integrino la dimensione sportiva con intenzionalità educative e di prevenzione di episodi di violenza. Una didattica della sportività formativa, a scuola e in altri contesti educativi-educanti, può porsi come programma di intervento preventivo capillare attraverso il quale favorire una crescente e allargata consapevolezza dei percorsi attraverso i quali ognuno costruisce la propria identità, un’alfabetizzazione, per così dire, identitaria, all’interno di un progetto di educazione relazionale (Clarizia, 2000, 2002, 2005), che si propone come possibile concreta risposta pedagogica a un bisogno sociale emergente e non tutto risolvibile all’interno di leggi e decreti ristrettivi. La performance sportiva, il confronto competitivo della gara, il momento della massima prestazione, il traguardo raggiunto non sono certo soltanto l’esito di energia, potenza e tecnica corporea; nell’auto-affermazione si riconoscono i valori dell’impegno e della rinuncia, del sacrificio e della disciplina; ed è qui, in questo spazio più ampio e strutturato rispetto al semplice risultato, che la percezione corporea dell’autoefficacia può generare e alimentare le regioni dell’autostima. È l’educazione alla competizione, al confronto, alla sfida, al riconoscimento reciproco delle regole, all’accettazione del limite, insieme all’impegno concreto e realistico per superarlo, che diventa contesto educante della sportività (Clarizia 2008). Ed è questo lo spazio dell’io che va curato nell’educazione alla sportività formativa. Riferimenti Bibliografici Blurton-Jones N.(1975), Etologia, antropologia e infanzia, in AA.VV., Antropologia biosociale, trad. it.1979 Armando, Roma. Blurton-Jones N.(a cura di) (1972), Il comportamento del bambino. Studi etologici, trad. it.1980 La Nuova Italia, Firenze. Bromberger C.(1999), La partita di calcio. Etnologia di una passione, Riuniti, Roma. Clarizia L.(2000), La relazione: alla radice dell’educativo, all’origine dell’educabilità, Anicia, Roma. Clarizia L.(2002), Pedagogia sociale e intersoggettività educante, SEAM, Roma. Clarizia L.(2005), Psicopedagogia dello sviluppo umano: una prospettiva relazionale, Edisud, Salerno. Clarizia L.(2008), Costruttori d’ identità. Gioco Sport Tifo, Edisud, Salerno. Dal Lago A. (2001), Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, il Mulino, Bologna. De Pieri S.- Tonolo G.-Delpiano M. (a cura di) (1986), L’età negata: ricerca sui preadolescenti in Italia, COSPES, Elle Di Ci, Torino. Demetrio D. (1999), L'educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Carocci, Roma. Hinde R.A.(1974), Le basi biologiche del comportamento sociale umano, trad. it.1977 Il Mulino, Bologna. Lanza L.- Prisco G.- Salomi M.- Variale C.(1988), Contributo alla conoscenza della struttura del sé in dilettanti che praticano attività sportiva, in “Movimento”, Edizioni Pozzi, Anno 4 - Num.2, Roma. Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (2007), Più sport a scuola e vince la vita. Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per lo sport a scuola, Prot. 17, 9 Febbraio 2007, Roma. Winnicott D.W.(1971), Playing and Reality, Tavistock Publications, London, trad. it. 1974, Gioco e realtà, Armando Roma.
Sportività formativa: una prospettiva ermeneutica nella didattica
CLARIZIA, Laura
2012-01-01
Abstract
Sportività formativa: una prospettiva ermeneutica nella didattica di Laura Clarizia L’ipotesi di lavoro da cui nascono le presenti riflessioni prende avvio dal medesimo significato ritrovato all’interno delle dinamiche evolutive/identitarie che strutturano il gioco, lo sport e il tifo: dal gioco infantile, liberamente competitivo e luogo di graduale costruzione dell’io, allo sport, al tifo, alla costante competizione esistenziale che caratterizza la vita, in una continuità ideale di libera e creativa tensione ludica; e la sportività formativa proposta è rintracciabile all’interno di una sorta di metafora ermeneutica, educativamente proponibile nella didattica motoria e sportiva: dal gioco allo sport, al tifo (e alla costitutiva vitalistica competizione nei contesti significativi), continuando a giocare. È nel gioco infantile, infatti, che traggono origine le dinamiche intrapsichiche che gradualmente strutturano l’io; l’area ludica dell’attività psicomotoria infantile è il luogo (spontaneo, creativo, flessibile, liberamente competitivo) di formazione dell’io e della sua identità, luogo transizionale (Winnicott, 1971), attraverso il quale accedere alla comunicazione con sé e con gli altri, al reciproco sano riconoscimento. L’attività ludico-motoria infantile è quello spazio potenziale di universale transizionalità tra realtà interna e realtà esterna che potrà consentire un possibile (sano) dinamico e creativo rapporto tra l’io e la realtà sociale e culturale, tra le dinamiche intrapsichiche della propria realtà interna e le relazioni interpersonali della realtà esterna (Winnicott, 1971). Secondo l’ipotesi proposta, qualsiasi didattica motoria e sportiva dovrebbe essere costantemente attraversata da una medesima direzione di senso, da un’ermeneuticità che riconosca nella ludicità il senso dell’attività motoria e sportiva, in una potenziale promozione dei valori della sportività. Di qui il consapevole (formativo) riconoscimento che la violenza che spesso accompagna il tifo e, naturalmente, è spesso presente anche in attività ludico-motorie e sportive, è un’interruzione proprio della sequenza gioco→sport→tifo, attraverso l’emergere di un implicito messaggio meta-comunicativo: questo non è più un gioco; l’assenza di ludicità nel gioco violento (nello sport violento, nel tifo violento) sottrae anche totalmente senso a qualsiasi comportamento violento, interpersonale-intergruppale, nell’esistenza umana. La metafora ermeneutica proposta, quale implicita ermeneutica fondazione della didattica motoria, (dal gioco allo sport e al tifo, continuando a giocare) ha guidato precedenti ricerche già pubblicate (Clarizia, 2008), dall’analisi dei cui dati emerge che gioco, sport e tifo possono contribuire in modo significativo, per tutta la vita, a costruire e rinforzare l’identità personale. Con l’ingresso nella preadolescenza, in particolare, il nucleo esperienziale ludico-motorio che aveva portato il bambino a correre, saltare, arrampicarsi, muoversi, divertendosi, anche isolatamente, si incontra con emergenti nuove esigenze socio-relazionali e affettive, con dinamismi evolutivi profondi, con tendenze contraddittorie e tensioni progettuali verso il futuro e, non raramente, con nodi problematici (COSPES, 1986). È soprattutto in questa delicata fase evolutiva, tra la preadolescenza e l’adolescenza, che il persistente interesse per il gioco e lo sport, educativamente orientato, può diventare lo spazio maturativo della personalità, il luogo didattico-educativo di una costruzione identitaria ludicamente non violenta. Bambini, giovani e adulti sono costantemente attratti verso il gioco, lo sport e il tifo, scorgendovi spesso una risposta elettiva alla consuetudine e alle ripetitività quotidiane; le relazioni ludiche, infatti, sono apicalità presenti nell’esistenza di tutti, come le relazioni affettive, operative e le relazioni con la stessa morte (Demetrio, 1999). In particolare, il calcio, lo stadio, il tifo sembrano configurarsi come contrappeso alle banalità e regolarità del quotidiano, come mezzo di evasione dalle abituali costrizioni e, non raramente, l'evento della partita di calcio diventa un giorno di festa, in cui il sentimento della festa si esprime nella gioiosità, nel senso di libertà dagli adempimenti consueti, nella rimozione dall'angoscia dell'invecchiamento, nella felice regressione verso anni infantili e adolescenziali. La ludicità va, dunque, riconosciuta nel suo carattere esistenziale profondo e nella connessa possibilità che sia attraversata da forti emozionalità, con l’implicito costante rischio, all’interno di costrutti identitari non maturi, di una riduzione dei freni inibitori, di una possibile limitazione (o di un annullamento) della funzione regolativa della ragione. La possibilità che l’attività motoria e sportiva (e il connesso tifo) svolgano una funzione positiva nella costruzione di identità non violente non può essere, dunque, attesa da una spontanea evoluzione (individuale/sociale) delle dinamiche identitarie, ma può essere pedagogicamente/operativamente proposta all’interno di vari luoghi sociali del quotidiano aggregativo: in contesti prevalentemente, ma non solo, ludico-sportivi, quali centri sportivi, centri ricreativi e del tempo libero, ludoteche, palestre; e in contesti prevalentemente, ma non solo evolutivi e/o istituzionalmente educativi, quali le scuole di ogni ordine e grado. Da tempo è stato evidenziato (Lanza et alii, 1988) come la pratica sportiva a livello agonistico incida positivamente sull’identità personale dei soggetti in età evolutiva, attraverso una maggior accettazione e fiducia in se stessi, che può favorire, in preadolescenti e adolescenti, la costanza e la responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi. Questa capacità di sviluppare le tensioni giuste per vincere o per opporsi a resistenze esterne o interne, trasferita sugli altri piani dell’esistenza o in altri contesti esperienziali, potrà essere molto più di una canalizzazione sociale dell’aggressività, secondo la comune lettura etologica e psicoanalitica, per diventare piuttosto un investimento positivo delle forze istintuali a vantaggio dello schema corporeo e, soprattutto, dell’identità personale. In questo senso, se pure, nelle prospettive etologica e psicoanalitica, viene privilegiata, nel gioco competitivo-agonistico, la funzione di canalizzare una sorta di aggressività intraspecifica innata, in altra direzione ci porta la distinzione, osservata in alcune fondamentali ricerche empiriche, tra zuffa gioiosa e comportamento ostile aggressivo. L’osservazione sperimentale di bambini tra i tre e i cinque anni (Blurton-Jones, 1972 1975 1980) ha, infatti, consentito di distinguere tra il gioco turbolento o di zuffa e il comportamento ostile o aggressivo, caratterizzato da litigi e baruffe. Il gioco turbolento o di zuffa, al contrario, continua a presentare alcune caratteristiche che lo confermano come gioco sociale: frequente alternarsi dei ruoli inseguitore/inseguito, assenza di posture minacciose, lotta gioiosa, riso, salti a piedi uniti, faccia ludica (Hinde, 1974). Tra i bambini, soprattutto in quelli più grandi, nel gioco (sociale) di lotta-zuffa, non compaiono mai il pugno, la percossa, lo sguardo irato, l’espressione corrucciata, il viso arrossato, che sono, invece, i segnali inequivocabili del comportamento aggressivo. Queste riflessioni sul potenziale ruolo sociale di questo tipo di gioco infantile (turbolento e competitivo) ci porta a integrare il punto di vista psicobiologico (psicoanalitico ed etologico), riconoscendo che lo sport (gioco competitivo sociale) non è solo (o non è tanto) una delle modalità in cui le comunità umane hanno appreso a esprimere, sublimandola, l’energia istintuale di natura aggressiva, ma ha una implicita funzione identitaria. Anche nel tifo, d’altra parte, si coglie il tentativo di superare un’anonima invisibilità, di accedere ad una visibilità negata nella vita sociale (Bromberger, 1999, 27), visibilità, in qualche modo, veicolata dai tifosi attraverso cori, striscioni, coreografie, bandiere…, modalità attraverso le quali il singolo tifoso o il suo gruppo può essere riconosciuto e contare, oltre la curva e la stessa città (Dal Lago, 2001, 41). Educare alla sportività significa educare al riconoscimento, in ogni circostanza della vita che implichi una competizione, del valore della propria persona e di quella dell’altro; significa educare ad una competizione che dia senso e significato all’esistenza, a promuovere un’identità caratterizzata da un atteggiamento interpersonale e intragruppale corretto e leale, sia che si competa direttamente in una gara sportiva sia che vi si assista, da tifoso. Gioco, sport e tifo, riconosciuti nell’implicita costante funzione di costruttori d’identità, possono, all’interno di una progettazione didattica, diventare costruttori di identità non violente. Dall’analisi empirica dei risultati della già citata ricerca (Clarizia, 2008) risulta, infatti, confermata l’ipotesi per la quale l’educazione allo sport e al tifo può svolgere una funzione protettiva rispetto all’assunzione di atteggiamenti/comportamenti violenti, in qualche modo connessi ad un’adesione totale, esclusiva e acritica ad un ideale di gruppo e/o individuale. L’idea di sportività formativa che propongo si aggancia ad un progetto di ricerca-intervento-formazione che, dapprima limitato ad un campione significativo di scuole e di centri aggregativi selezionati (prevalentemente sportivi), presenti sul nostro territorio, aspira ad una ben più ampia finalità: una finalità di tipo preventivo/educativo/rieducativo rispetto a possibili degenerazioni comportamentali correlabili all’adesione, totalizzante ed esclusiva, ad un ideale sportivo (tifo violento), ma rinvenibili anche in molte dinamiche di confronto interpersonale o intergruppale (bullismo…). All’interno di tale ipotesi, una finalità educativa ampia e generale è individuabile nella possibilità di avviare concretamente, in vari luoghi sociali di educazione-formazione (infantile e giovanile) e di aggregazione sportiva e tifistica (anche in una prospettiva di lifelong learning), un programma di intervento preventivo di primo, secondo e terzo livello, rispetto al conflitto e alla violenza interpersonale/intragruppale. Le motivazioni sono rinvenibili, oltre che all’interno di un produttivo interesse per un approfondimento e una verifica sperimentale di quanto già emerso, anche nella riconosciuta centralità della dimensione sportiva e del tifo connesso, così come recentemente evidenziato dal Ministero della Pubblica Istruzione. In una nota ministeriale del 2007 si legge: La scuola dell’autonomia, oltre a consentire ai giovani l’opportunità di praticare in maniera sana lo sport, può contribuire ad accrescere, mediante approcci interdisciplinari, la consapevolezza e il senso critico riguardo le diverse forme di violenza, comprese quelle che adottano come pretesto le manifestazioni sportive. La scuola deve contribuire a promuovere una corretta concezione dell'educazione motoria e delle attività sportive costituendo una alternativa culturale alla violenza, all’esasperazione del risultato, alla slealtà (Miur, Roma 2007). La Scuola è, dunque, particolarmente attenta all’educazione corporea, sottolineando, nella sua legislazione, che nell’attività sportiva si possono realizzare importanti obiettivi educativi e si possono, in particolare, acquisire competenze indispensabili quali il dominio di sé, il senso della solidarietà, la capacità di collaborare per un fine comune, la valorizzazione del ruolo di tutti ed il rispetto del ruolo di ciascuno (Miur, Roma 2007). A patto, tuttavia, di conservare la strutturale dimensione ludica dello sport, evoluzione socio-culturale del gioco competitivo con regole, in cui l’avversario, pur indossando una diversa maglia o facendo un tifo in altra direzione, è l’altro giocatore, è l’altro che partecipa dello stesso gioco competitivo. Nel rapporto tra tifo e mondo sportivo emerge la necessità di una progettualità educativa consapevole che ponga al centro la creazione del “nuovo sportivo”, che, sia nel ruolo di praticante che in quello di spettatore, ristabilisca l’equilibrio tra il piacere e la passione, riproponendo un ritorno ad una dimensione competitiva e aggregativa responsabile e consapevole. Nella condivisione della finalità ministeriale, per la quale appare necessario acquisire un approccio all’esperienza sportiva in cui l’enfasi venga posta sull’intero processo di costruzione della personalità più che sulla prestazione, al fine di favorire tra le giovani generazioni la trasmissione dei corretti valori dello sport che li allontanino da ogni forma di tifo violento (Miur, Roma 2007), la ricerca che stiamo attualmente realizzando si pone un duplice obiettivo, secondo due ordini di modalità e di destinatari: il primo, di tipo educativo-preventivo rivolto a bambini e adolescenti, così che, attraverso percorsi educativi specifici, possano acquisire una cultura educativa-sportiva consapevole; il secondo di tipo formativo-metodologico-operativo, rivolto ad insegnanti, educatori sportivi, allenatori, genitori, altri adulti significativi presenti nei contesti selezionati, al fine di formare adulti motivati e competenti nella progettazione di interventi che integrino la dimensione sportiva con intenzionalità educative e di prevenzione di episodi di violenza. Una didattica della sportività formativa, a scuola e in altri contesti educativi-educanti, può porsi come programma di intervento preventivo capillare attraverso il quale favorire una crescente e allargata consapevolezza dei percorsi attraverso i quali ognuno costruisce la propria identità, un’alfabetizzazione, per così dire, identitaria, all’interno di un progetto di educazione relazionale (Clarizia, 2000, 2002, 2005), che si propone come possibile concreta risposta pedagogica a un bisogno sociale emergente e non tutto risolvibile all’interno di leggi e decreti ristrettivi. La performance sportiva, il confronto competitivo della gara, il momento della massima prestazione, il traguardo raggiunto non sono certo soltanto l’esito di energia, potenza e tecnica corporea; nell’auto-affermazione si riconoscono i valori dell’impegno e della rinuncia, del sacrificio e della disciplina; ed è qui, in questo spazio più ampio e strutturato rispetto al semplice risultato, che la percezione corporea dell’autoefficacia può generare e alimentare le regioni dell’autostima. È l’educazione alla competizione, al confronto, alla sfida, al riconoscimento reciproco delle regole, all’accettazione del limite, insieme all’impegno concreto e realistico per superarlo, che diventa contesto educante della sportività (Clarizia 2008). Ed è questo lo spazio dell’io che va curato nell’educazione alla sportività formativa. Riferimenti Bibliografici Blurton-Jones N.(1975), Etologia, antropologia e infanzia, in AA.VV., Antropologia biosociale, trad. it.1979 Armando, Roma. Blurton-Jones N.(a cura di) (1972), Il comportamento del bambino. Studi etologici, trad. it.1980 La Nuova Italia, Firenze. Bromberger C.(1999), La partita di calcio. Etnologia di una passione, Riuniti, Roma. Clarizia L.(2000), La relazione: alla radice dell’educativo, all’origine dell’educabilità, Anicia, Roma. Clarizia L.(2002), Pedagogia sociale e intersoggettività educante, SEAM, Roma. Clarizia L.(2005), Psicopedagogia dello sviluppo umano: una prospettiva relazionale, Edisud, Salerno. Clarizia L.(2008), Costruttori d’ identità. Gioco Sport Tifo, Edisud, Salerno. Dal Lago A. (2001), Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, il Mulino, Bologna. De Pieri S.- Tonolo G.-Delpiano M. (a cura di) (1986), L’età negata: ricerca sui preadolescenti in Italia, COSPES, Elle Di Ci, Torino. Demetrio D. (1999), L'educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Carocci, Roma. Hinde R.A.(1974), Le basi biologiche del comportamento sociale umano, trad. it.1977 Il Mulino, Bologna. Lanza L.- Prisco G.- Salomi M.- Variale C.(1988), Contributo alla conoscenza della struttura del sé in dilettanti che praticano attività sportiva, in “Movimento”, Edizioni Pozzi, Anno 4 - Num.2, Roma. Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (2007), Più sport a scuola e vince la vita. Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per lo sport a scuola, Prot. 17, 9 Febbraio 2007, Roma. Winnicott D.W.(1971), Playing and Reality, Tavistock Publications, London, trad. it. 1974, Gioco e realtà, Armando Roma.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.