Negli ultimi venti anni, il concetto di coesione sociale è stato oggetto di crescente attenzione da parte del mondo accademico e politico. Probabilmente, il suo successo è imputabile al fatto che permette di rispondere ad una domanda fondamentale sia per le scienze sociali sia per la politica: come è possibile l’esistenza della società e il suo continuo riprodursi? Detto in altre parole: cos’è che mantiene i singoli individui coesi permettendo l’esistenza della società? Questi interrogativi riconducono alle origini della sociologia, precisamente a Durkheim, uno dei primi studiosi ad interrogarsi sul tema dell’ordine sociale. I tempi in cui operò Durkheim, esattamente come i nostri, furono attraversati da profondi cambiamenti strutturali, che segnarono il passaggio da un mondo tradizionale ad uno moderno. Non è un caso che il tema della coesione sociale sia al centro dell’attenzione ogni volta che la società è attraversata da profondi mutamenti, che ne scuotono le fondamenta. In questi casi si ripropone il tema della stabilità e della preservazione degli assetti sociali. Durkheim (1893) individua due forme di solidarietà – meccanica ed organica – associate a due società diverse, una di tipo tradizionale, l’altra di tipo moderno. La prima è una “solidarietà” che si basa sulla somiglianza fra individui che condividono lo stesso sistema valoriale, gli stessi orizzonti interpretativi, le stesse rappresentazioni. È quindi una solidarietà che funziona in modo naturale, pertanto sarebbe meccanica. La seconda forma di solidarietà è costitutiva delle società moderne. Per alcuni versi, è l’esatto contrario di quella precedente in quanto non si basa sulla somiglianza fra individui, ma sulle differenze che sussistono fra loro. Questa forma di solidarietà sarebbe il frutto della divisione del lavoro, che, attraverso la specializzazione delle funzioni, genera differenze fra gli individui. In un sistema dove ognuno ha una sua specifica funzione, gli individui sono più interconnessi rispetto ad una società pre-moderna. È proprio questa interdipendenza che genera “solidarietà”, o meglio coesione. Durkheim non è il solo autore che ha provato a rispondere a questo quesito fondamentale. Secondo Jenson (1998), possiamo individuarne altri due: il liberalismo e le teorie democratiche, come per esempio la socialdemocrazia. Il liberalismo classico concepisce la società come somma di individui; i valori dominanti sono la libertà dell’individuo, l’individualismo, il rispetto reciproco dei diritti. L’idea principale è che il buon funzionamento della società sia un sottoprodotto del comportamento degli individui (Jenson 1998). L’intervento statale è visto come qualcosa che limita la libertà di scelta dell’individuo, e dovrebbe essere ridotto al minimo, tanto da privatizzare anche i servizi sociali attraverso reti di volontariato, che dovrebbero divenire l’unica forma di assistenza. In questo quadro le istituzioni non giocano nessun ruolo nel favorire l’ordine sociale, che è totalmente demandato al mercato, al comportamento degli individui e alle istituzioni private, come la famiglia, le associazioni, le istituzioni ecclesiastiche. L’altro approccio si riferisce alle teorie di stampo democratico come il “democratic socialism, post 1945 Christian democracy, and positive liberalism” (Jenson 1998, 12), sulla cui base sono nati gli Stati occidentali del dopoguerra, compresa l’Italia. Al contrario del liberismo classico, questa terza via all’ordine sociale considera le istituzioni democratiche come fondamentali nell’assicurare il buon funzionamento di una società, attraverso la redistribuzione dei redditi, l’assistenza sociale, i correttivi da apportare ai fallimenti del mercato libero. Il valore fondante che accomuna le diverse teorie democratiche è l’uguaglianza. L’ordine sociale, secondo questa prospettiva, sarebbe il frutto di un’equa redistribuzione dei redditi che i governi cercano di assicurare attraverso politiche sociali che garantiscano pari opportunità a tutti i cittadini – si pensi alla scuola pubblica – oppure politiche che correggano i fallimenti di una società industriale – assegni di disoccupazione, pensioni, assegni familiari. All’equità e uguaglianza fra cittadini si aggiunge, come secondo asse portante su cui tali Stati si sono poggiati, una politica di piena occupazione che possa assicurare a tutti l’accesso al reddito (Jenson 1998). Per riassumere, vi sono tre strade che condurrebbero all’ordine sociale: la teoria sociale di Durkheim sostiene che l’ordine sociale sia dovuto all’interdipendenza dei soggetti, alla fiducia reciproca e alla solidarietà; per il liberalismo classico l’ordine sociale sarebbe frutto dei comportamenti dei singoli individui che agiscono in istituzioni private, come il mercato; le teorie democratiche vedono l’ordine sociale come il risultato dell’azione di governi democratici che assicurano uguaglianza e parità d’accesso alle risorse. Il pensiero del sociologo francese, così come le due teorie alternative all’ordine sociale, sono molto più complesse di quanto presentato da noi, e prendono in considerazione numerosi altri elementi. Ma non è questo il luogo in cui approfondire tali argomenti. Questa breve introduzione ci è servita da un lato per capire come, l’interrogarsi sull’ordine sociale, sui meccanismi che permettono alla società di perpetuarsi, sul rapporto fra individuo e società, sia da sempre una delle maggiori preoccupazioni degli scienziati sociali; dall’altro ci ha permesso di fare una breve introduzione dandoci l’opportunità di collocare storicamente il concetto di coesione sociale, nonché la sua origine sociologica e filosofica. Come molti autori sottolineano (Berger-Schmitt e Noll 2000; Berger-Schmitt 2002; Noll 2002; Jenson 1998; Jeannotte 2003; Bernard 1999; Beauvais e Jenson 2002) il concetto di coesione sociale pone numerosi problemi sia di carattere concettuale, sia di carattere empirico. Jenkins (1998, 37) riassume l’attuale confusione sul tema: “social cohesion is an ambiguous concept because it can be used by those seeking to accomplish a variety of things. It is sometimes deployed in rightwing and populist politics by those who long for the good old days when life seemed easier, safer, and less threatening. But social cohesion can also be used by those who fear the consequences of excessively marketised visions of the future. There is no question that those within Canada and much of the international policy community who evoke social cohesion do so because they fear the results of structural adjustments that ignore social and political needs. They are decidedly facing the future, not the past”. Innanzitutto, bisogna chiarire che cosa si intende per coesione sociale; per fare ciò faremo riferimento alla letteratura internazionale, sia accademica, sia istituzionale. Iniziamo da quest’ultima, dando uno sguardo ai documenti ufficiali dell’Unione Europea, dell’OCSE, del Consiglio d’Europa e della Banca Mondiale.

Concetti e misure della coesione sociale

ADDEO, FELICE;
2014-01-01

Abstract

Negli ultimi venti anni, il concetto di coesione sociale è stato oggetto di crescente attenzione da parte del mondo accademico e politico. Probabilmente, il suo successo è imputabile al fatto che permette di rispondere ad una domanda fondamentale sia per le scienze sociali sia per la politica: come è possibile l’esistenza della società e il suo continuo riprodursi? Detto in altre parole: cos’è che mantiene i singoli individui coesi permettendo l’esistenza della società? Questi interrogativi riconducono alle origini della sociologia, precisamente a Durkheim, uno dei primi studiosi ad interrogarsi sul tema dell’ordine sociale. I tempi in cui operò Durkheim, esattamente come i nostri, furono attraversati da profondi cambiamenti strutturali, che segnarono il passaggio da un mondo tradizionale ad uno moderno. Non è un caso che il tema della coesione sociale sia al centro dell’attenzione ogni volta che la società è attraversata da profondi mutamenti, che ne scuotono le fondamenta. In questi casi si ripropone il tema della stabilità e della preservazione degli assetti sociali. Durkheim (1893) individua due forme di solidarietà – meccanica ed organica – associate a due società diverse, una di tipo tradizionale, l’altra di tipo moderno. La prima è una “solidarietà” che si basa sulla somiglianza fra individui che condividono lo stesso sistema valoriale, gli stessi orizzonti interpretativi, le stesse rappresentazioni. È quindi una solidarietà che funziona in modo naturale, pertanto sarebbe meccanica. La seconda forma di solidarietà è costitutiva delle società moderne. Per alcuni versi, è l’esatto contrario di quella precedente in quanto non si basa sulla somiglianza fra individui, ma sulle differenze che sussistono fra loro. Questa forma di solidarietà sarebbe il frutto della divisione del lavoro, che, attraverso la specializzazione delle funzioni, genera differenze fra gli individui. In un sistema dove ognuno ha una sua specifica funzione, gli individui sono più interconnessi rispetto ad una società pre-moderna. È proprio questa interdipendenza che genera “solidarietà”, o meglio coesione. Durkheim non è il solo autore che ha provato a rispondere a questo quesito fondamentale. Secondo Jenson (1998), possiamo individuarne altri due: il liberalismo e le teorie democratiche, come per esempio la socialdemocrazia. Il liberalismo classico concepisce la società come somma di individui; i valori dominanti sono la libertà dell’individuo, l’individualismo, il rispetto reciproco dei diritti. L’idea principale è che il buon funzionamento della società sia un sottoprodotto del comportamento degli individui (Jenson 1998). L’intervento statale è visto come qualcosa che limita la libertà di scelta dell’individuo, e dovrebbe essere ridotto al minimo, tanto da privatizzare anche i servizi sociali attraverso reti di volontariato, che dovrebbero divenire l’unica forma di assistenza. In questo quadro le istituzioni non giocano nessun ruolo nel favorire l’ordine sociale, che è totalmente demandato al mercato, al comportamento degli individui e alle istituzioni private, come la famiglia, le associazioni, le istituzioni ecclesiastiche. L’altro approccio si riferisce alle teorie di stampo democratico come il “democratic socialism, post 1945 Christian democracy, and positive liberalism” (Jenson 1998, 12), sulla cui base sono nati gli Stati occidentali del dopoguerra, compresa l’Italia. Al contrario del liberismo classico, questa terza via all’ordine sociale considera le istituzioni democratiche come fondamentali nell’assicurare il buon funzionamento di una società, attraverso la redistribuzione dei redditi, l’assistenza sociale, i correttivi da apportare ai fallimenti del mercato libero. Il valore fondante che accomuna le diverse teorie democratiche è l’uguaglianza. L’ordine sociale, secondo questa prospettiva, sarebbe il frutto di un’equa redistribuzione dei redditi che i governi cercano di assicurare attraverso politiche sociali che garantiscano pari opportunità a tutti i cittadini – si pensi alla scuola pubblica – oppure politiche che correggano i fallimenti di una società industriale – assegni di disoccupazione, pensioni, assegni familiari. All’equità e uguaglianza fra cittadini si aggiunge, come secondo asse portante su cui tali Stati si sono poggiati, una politica di piena occupazione che possa assicurare a tutti l’accesso al reddito (Jenson 1998). Per riassumere, vi sono tre strade che condurrebbero all’ordine sociale: la teoria sociale di Durkheim sostiene che l’ordine sociale sia dovuto all’interdipendenza dei soggetti, alla fiducia reciproca e alla solidarietà; per il liberalismo classico l’ordine sociale sarebbe frutto dei comportamenti dei singoli individui che agiscono in istituzioni private, come il mercato; le teorie democratiche vedono l’ordine sociale come il risultato dell’azione di governi democratici che assicurano uguaglianza e parità d’accesso alle risorse. Il pensiero del sociologo francese, così come le due teorie alternative all’ordine sociale, sono molto più complesse di quanto presentato da noi, e prendono in considerazione numerosi altri elementi. Ma non è questo il luogo in cui approfondire tali argomenti. Questa breve introduzione ci è servita da un lato per capire come, l’interrogarsi sull’ordine sociale, sui meccanismi che permettono alla società di perpetuarsi, sul rapporto fra individuo e società, sia da sempre una delle maggiori preoccupazioni degli scienziati sociali; dall’altro ci ha permesso di fare una breve introduzione dandoci l’opportunità di collocare storicamente il concetto di coesione sociale, nonché la sua origine sociologica e filosofica. Come molti autori sottolineano (Berger-Schmitt e Noll 2000; Berger-Schmitt 2002; Noll 2002; Jenson 1998; Jeannotte 2003; Bernard 1999; Beauvais e Jenson 2002) il concetto di coesione sociale pone numerosi problemi sia di carattere concettuale, sia di carattere empirico. Jenkins (1998, 37) riassume l’attuale confusione sul tema: “social cohesion is an ambiguous concept because it can be used by those seeking to accomplish a variety of things. It is sometimes deployed in rightwing and populist politics by those who long for the good old days when life seemed easier, safer, and less threatening. But social cohesion can also be used by those who fear the consequences of excessively marketised visions of the future. There is no question that those within Canada and much of the international policy community who evoke social cohesion do so because they fear the results of structural adjustments that ignore social and political needs. They are decidedly facing the future, not the past”. Innanzitutto, bisogna chiarire che cosa si intende per coesione sociale; per fare ciò faremo riferimento alla letteratura internazionale, sia accademica, sia istituzionale. Iniziamo da quest’ultima, dando uno sguardo ai documenti ufficiali dell’Unione Europea, dell’OCSE, del Consiglio d’Europa e della Banca Mondiale.
2014
9788891708229
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/4505872
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