La ‘legalità reticolare’ di fonte sovranazionale che anima la più recente normativa anticorruzione in Italia, ponendo un problema di recupero di una cultura giuridico-penale nel rapporto tra modelli di tipizzazione convenzionale ed interna, si fa apprezzare per una decisa impostazione di metodo sul piano preventivo - unica eccezione il corto circuito sistematico nella disciplina della figura del c.d. delatore interno (Whistleblower) – alla quale, come pure per le proposte contenute nel recentissimo ddl del governo Renzi in materia, seguono, però, sul piano strettamente penalistico le maggiori riserve. Infatti, sono proprio le opzioni di diritto penale del processo (inasprimenti sanzionatori funzionali alle indagini con abbandono della logica premiale), di ristrutturazione delle fattispecie penali con eccessi tecnicistici e diritto criminogeno che, nella legge n.190 del 2012, impongono, già sul piano ermeneutico, una esigenza di razionalizzazione del diritto penale multilivello nel contrasto al mercimonio delle funzioni pubbliche. Infatti, è proprio il rispetto di regole assiologicamente orientate a valori normativo-superiori di selezione primaria (determinazione del danno da definizione doveri che originano infedeltà nel 2635 c.c., recupero struttura pericolo concreto per 346 bis e 318 c.p. per porre limiti al diritto penale disciplinare in funzione eticizzante) e di selezione secondaria (ristrutturazione normativa del delitto di concussione e conseguente recupero di razionali tratti distintivi con la ormai nota ipotesi di induzione indebita) che porta, anche attraverso il decisivo contributo del formante giurisprudenziale alla costruzione di una evidente legalità complessa, al necessario recupero della nomofilachia delle norme sulla nomofilachia dei casi. Pertanto, anche a seguito della recente legge n.190 del 2012 e successiva n.69 del 2015, le discutibili aperture al ricorso a (de)penalizzazioni in concreto affidate ad una politica giudiziaria in nome di una pur invocata tenuta del sistema sembrano, in via generale e più specificamente per il vuoto di tutela generato dalle ipotesi di "induzione non costrittiva vittimizzante", spingere verso la necessità di ripensare, già nell’immediato e come avvenuto in Italia con il ddl appena varato dal Governo Renzi, ad una 'riforma delle riforme' che, al riparo da torsioni (in)sopportabili della legalità, sappia radicare nel dato normativo opzioni razionali di politica criminale. Una ‘riforma delle riforme’, fuori da norme spot fisiologicamente emergenziali (ennesimo giro di vite con strumentali inasprimenti sanzionatori, patteggiamenti condizionati alla restituzione del maltolto e confisca allargata) e al riparo da una inquietante commistione tra contrasto alla infedeltà nella pubblica amministrazione con strategie ‘differenziate’ sul modello della “lotta alla mafia”, deve, allora, proporsi il recupero di una concezione personalistica di pubblica amministrazione che, nel tessuto complessivo costituzionale, venga posta alla base di una corrispondente concezione personalistica dell’oggetto della tutela penale, così individuabile, anche attraverso una opportuna valorizzazione del tipo criminologico e normativo, nel patrimonio collettivo pubblico. Su queste basi, dunque, è facile comprendere come ragioni di determinatezza portano ad una conservazione dei delitti nell’esercizio delle funzioni pubbliche che, caratterizzati da qualificate modalità di aggressione, portano ad un inquadramento degli attuali reati contro la pubblica amministrazione in “delitti di infedeltà” in cui anche la differenziazione tra danno privatistico e pubblicistico (coincidente già con lo sperpero di risorse collettive) impone una ristrutturazione delle fattispecie penali di riferimento secondo parametri di effettività del controllo. Ma fenomeni complessi come quelli qui oggetto di studio propongono accanto ad una rivisitazione dell’intervento repressivo anche il recupero di razionali strategie di controllo che, già sul terreno preventivo e secondo modelli di tipo multiagenziale in cui la ‘prevenzione mediante organizzazione’, tesa a ridurre il rischio corruttivo pure mediante una connaturata componente premiale, non mancherà di valorizzare il richiamo ad una necessaria interazione tra etica pubblica, ma anche privata, alla base di una impostazione istituzionale per una lotta a fatti, come quelli qui in esame, in cui il diritto conserva necessariamente uno spazio sussidiario di intervento.

SISTEMA PENAL Y NORMATIVA ANTICORRUPCIÓN EN ITALIA: LA “LEGALIDAD RETICULAR” COMO PRUEBA DE LAS OPCIONES DE VALOR EN EL DERECHO INTERNO

SESSA, Antonino
2017-01-01

Abstract

La ‘legalità reticolare’ di fonte sovranazionale che anima la più recente normativa anticorruzione in Italia, ponendo un problema di recupero di una cultura giuridico-penale nel rapporto tra modelli di tipizzazione convenzionale ed interna, si fa apprezzare per una decisa impostazione di metodo sul piano preventivo - unica eccezione il corto circuito sistematico nella disciplina della figura del c.d. delatore interno (Whistleblower) – alla quale, come pure per le proposte contenute nel recentissimo ddl del governo Renzi in materia, seguono, però, sul piano strettamente penalistico le maggiori riserve. Infatti, sono proprio le opzioni di diritto penale del processo (inasprimenti sanzionatori funzionali alle indagini con abbandono della logica premiale), di ristrutturazione delle fattispecie penali con eccessi tecnicistici e diritto criminogeno che, nella legge n.190 del 2012, impongono, già sul piano ermeneutico, una esigenza di razionalizzazione del diritto penale multilivello nel contrasto al mercimonio delle funzioni pubbliche. Infatti, è proprio il rispetto di regole assiologicamente orientate a valori normativo-superiori di selezione primaria (determinazione del danno da definizione doveri che originano infedeltà nel 2635 c.c., recupero struttura pericolo concreto per 346 bis e 318 c.p. per porre limiti al diritto penale disciplinare in funzione eticizzante) e di selezione secondaria (ristrutturazione normativa del delitto di concussione e conseguente recupero di razionali tratti distintivi con la ormai nota ipotesi di induzione indebita) che porta, anche attraverso il decisivo contributo del formante giurisprudenziale alla costruzione di una evidente legalità complessa, al necessario recupero della nomofilachia delle norme sulla nomofilachia dei casi. Pertanto, anche a seguito della recente legge n.190 del 2012 e successiva n.69 del 2015, le discutibili aperture al ricorso a (de)penalizzazioni in concreto affidate ad una politica giudiziaria in nome di una pur invocata tenuta del sistema sembrano, in via generale e più specificamente per il vuoto di tutela generato dalle ipotesi di "induzione non costrittiva vittimizzante", spingere verso la necessità di ripensare, già nell’immediato e come avvenuto in Italia con il ddl appena varato dal Governo Renzi, ad una 'riforma delle riforme' che, al riparo da torsioni (in)sopportabili della legalità, sappia radicare nel dato normativo opzioni razionali di politica criminale. Una ‘riforma delle riforme’, fuori da norme spot fisiologicamente emergenziali (ennesimo giro di vite con strumentali inasprimenti sanzionatori, patteggiamenti condizionati alla restituzione del maltolto e confisca allargata) e al riparo da una inquietante commistione tra contrasto alla infedeltà nella pubblica amministrazione con strategie ‘differenziate’ sul modello della “lotta alla mafia”, deve, allora, proporsi il recupero di una concezione personalistica di pubblica amministrazione che, nel tessuto complessivo costituzionale, venga posta alla base di una corrispondente concezione personalistica dell’oggetto della tutela penale, così individuabile, anche attraverso una opportuna valorizzazione del tipo criminologico e normativo, nel patrimonio collettivo pubblico. Su queste basi, dunque, è facile comprendere come ragioni di determinatezza portano ad una conservazione dei delitti nell’esercizio delle funzioni pubbliche che, caratterizzati da qualificate modalità di aggressione, portano ad un inquadramento degli attuali reati contro la pubblica amministrazione in “delitti di infedeltà” in cui anche la differenziazione tra danno privatistico e pubblicistico (coincidente già con lo sperpero di risorse collettive) impone una ristrutturazione delle fattispecie penali di riferimento secondo parametri di effettività del controllo. Ma fenomeni complessi come quelli qui oggetto di studio propongono accanto ad una rivisitazione dell’intervento repressivo anche il recupero di razionali strategie di controllo che, già sul terreno preventivo e secondo modelli di tipo multiagenziale in cui la ‘prevenzione mediante organizzazione’, tesa a ridurre il rischio corruttivo pure mediante una connaturata componente premiale, non mancherà di valorizzare il richiamo ad una necessaria interazione tra etica pubblica, ma anche privata, alla base di una impostazione istituzionale per una lotta a fatti, come quelli qui in esame, in cui il diritto conserva necessariamente uno spazio sussidiario di intervento.
2017
978-84-9143-572-3
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/4686925
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