Con l’emanazione del d.M.Int. 27 febbraio 2017 con cui il Ministero dell’Interno ha dato attuazione all’art. 4 d.lgs. n. 5/2017 relativamente alle modifiche necessarie per il coordinamento al d.m. 27 febbraio 2001, si è concluso un iter legislativo quanto mai laborioso e segnato da integrazioni e specificazioni che, alla fine, hanno delineato il quadro compiuto e armonico di una disciplina ormai dettagliata ed ampia. La produzione normativa, soltanto iniziata con l’emanazione della legge 20 maggio 2016, appariva, al tempo, invece, il punto di arrivo al pari di una meta raggiunta faticosamente dopo anni di contrasti, patteggiamenti, polemiche e ripensamenti. Infatti, la legge n. 76/2016, all’art. 1, comma 28 aveva previsto la delega al Governo per adottare, entro sei mesi dalla data della sua entrata in vigore, «uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato… c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti». A ben rileggere il testo della legge e dei decreti delegati si coglie, in uno sguardo globale, la faticosa coerenza e, nel tempo stesso, la determinata volontà di perseguire un apprezzabile risultato finale: tanto per dare dignità ad un istituto che integra e completa la giuridificazione della complessa realtà delle relazioni di coppia. Ogni successivo decreto emanato, senza escludere i provvedimenti della giustizia amministrativa, ha apportato un significativo tassello alla costruzione dell’insieme, e ciò, non in maniera causale o estemporanea, bensì a ragion veduta: quasi ogni specificazione – anche quelle in prima facie apparentemente meno comprensibili – contenuta nei commi della legge 76 trova a posteriori la sua ragion d’essere, a riprova della ratio e della avveduta lungimiranza ad essa sottese. Ne è conferma l’inserimento in apertura del richiamo all’art. 3 Cost., superfluo, alla prima lettura, ma contenente anche il probabile suggerimento per la giustificazione di una successiva interpretazione analogica. E se il decreto n. 5 del 19 gennaio 2017 ancora si limitava a precisare, con l’inserimento all’interno del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, dell’art. 70-octies, che le parti devono rendere all’ufficiale di stato civile la dichiarazione di voler costituire l’unione e che «l’ufficiale dello stato civile, ricevuta la dichiarazione di cui al comma 2, fatta menzione del contenuto dei commi 11 e 12 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, iscrive l’atto di costituzione dell’unione civile nel registro…», lo stesso decreto n. 5, all’art. 4, preannunciava, con il successivo Decreto del Ministro dell’interno, da adottarsi entro trenta giorni, l’ultimo tassello di un mosaico da completare, in virtù del quale anche gli unendi avrebbero «pronunciato il loro sì», come taluno ha annotato, prima che l’ufficiale di stato civile li dichiarasse, con formale solennità, componenti dell’unione civile. Infatti, la formula di legge di cui all’Allegato 2, ove è specificato che il rappresentante dello Stato, vestito in forma ufficiale (i.e. con la fascia tricolore, come da precedente disposizione inserita dal decreto n. 5), «in una sala aperta al pubblico» e, dopo aver domandato «a ciascuna delle due persone da unire civilmente se intende unirsi civilmente con l’altro, e avendo ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni…», dichiara che è costituita l’unione civile. È comunque singolare che tali atti debbano trovare disciplina certa, alla fine, in asettici formulari della p.a., seppure vi è chi ritiene che, ex lege 76, la manifestazione di volontà delle parti esaurisca la fattispecie costitutiva dell’unione, e che tale formula, ragionevolmente da intendersi quale formula ad pompam, non abbia capacità di innovare il dato di legge. Da cui i dubbi sulla legittimità del d.m. 27 febbraio 2017 per mancato rispetto delle norme di legge, secondo il principio di legalità degli atti, atteso che nell’art. 1, comma 2˚, della l. n. 76/16, così come nel nuovo art. 70-octies d.P.R. 396/2000, si fa testualmente e rigorosamente menzione «soltanto» di una dichiarazione delle parti di voler costituire unione civile. E ciò, nella convinzione che, in base al criterio della volontà contraria del legislatore, la mancata previsione espressa di una dichiarazione dell’ufficiale di stato civile non sia riconducibile ad una svista… bensì rispondente ad una scelta legislativa. Configurandosi invece effettivamente una lacuna, l’applicazione analogica dovrà fondarsi sui consueti presupposti della somiglianza giuridica tra fattispecie omessa e fattispecie regolata, nonché sulla natura non eccezionale della disposizione particolare - in questo caso, quella matrimoniale - di cui fare estensione. Per taluni ricorrerebbe, in materia, il ricorso all’interpretazione sistematica, allo scopo di individuare la regula iuris applicabile in concreto attraverso l’interpretazione di norme per lo più generali e variamente dislocate nell’ordinamento. In tale ottica, i principi generali dell’ordinamento parrebbero configurarsi quale strumento di autointegrazione – sulla base di una concezione dogmatico-positiva in ordine alla loro natura e funzione – in quanto principi logici ricavabili per astrazione generalizzante dall’ordinamento stesso. Il percorso potrebbe così condurre alla costruzione di una disciplina dell’unione civile per taluni aspetti sovrapponibile a quella matrimoniale, ma solo in quanto anche la disciplina del matrimonio, speciale, ma non eccezionale, potrebbe costituire per alcuni aspetti l’attuazione di norme generali come tali applicabili a tutti quegli istituti che – a prescindere da qualsiasi somiglianza – possono ad esse essere riconducibili in un rapporto da species a genus. Da una diversa prospettiva, nel caso in analisi l’interprete è il legislatore stesso, rectius, il legislatore delegato, che colma le lacune e che, nella fattispecie de qua, integra ed amplia i confini della norma-fonte. E può soccorrere il richiamo alla sostanziale unitarietà dell’ordinamento giuridico – rectius, legislativo – e all’altrettanto sostanziale identità/continuità tra il legislatore delegante ed il legislatore delegato. E se è vero che l’esistenza delle lacune, per Kelsen, è un problema politico e non giuridico, alla luce della concezione nomo-dinamica dell’ordinamento gerarchico delle norme (Stufenbau), per la quale il processo dell’applicazione «quindi dell’interpretazione vel integrazione» del diritto è un processo di successive specificazioni e determinazioni di ogni norma inferiore rispetto a quella superiore, ne consegue che anche l’integrazione attuata dal legislatore «delegato» è, alla fine, un atto «politico», non solo giuridico. Infine, laddove le lacune della legge Cirinnà non appaiono sanabili se non attraverso l’integrazione analogica di una norma della disciplina matrimoniale, ricorrerebbe comunque una giustificazione costituzionalmente orientata, fondata sull’art. 3 Cost., forse non a caso allo stesso art. 1, comma 1, della l. n. 78/2016, richiamato. D’altronde, anche nel campo del diritto, il fondamento dell’analogia è l’uguaglianza dei rapporti, la proporzionalità, che per taluno costituisce il nucleo razionale della stessa nozione di giustizia distributiva. E questa consiste nella perelmaniana «regola di giustizia», non solo con riferimento all’applicazione delle regole, ma anche nel processo della loro produzione.

La realtà giuridica delle unioni civili alla luce dei decreti attuativi della l. 20 maggio 2016, n. 76

Annamaria Giulia Parisi
2019-01-01

Abstract

Con l’emanazione del d.M.Int. 27 febbraio 2017 con cui il Ministero dell’Interno ha dato attuazione all’art. 4 d.lgs. n. 5/2017 relativamente alle modifiche necessarie per il coordinamento al d.m. 27 febbraio 2001, si è concluso un iter legislativo quanto mai laborioso e segnato da integrazioni e specificazioni che, alla fine, hanno delineato il quadro compiuto e armonico di una disciplina ormai dettagliata ed ampia. La produzione normativa, soltanto iniziata con l’emanazione della legge 20 maggio 2016, appariva, al tempo, invece, il punto di arrivo al pari di una meta raggiunta faticosamente dopo anni di contrasti, patteggiamenti, polemiche e ripensamenti. Infatti, la legge n. 76/2016, all’art. 1, comma 28 aveva previsto la delega al Governo per adottare, entro sei mesi dalla data della sua entrata in vigore, «uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato… c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti». A ben rileggere il testo della legge e dei decreti delegati si coglie, in uno sguardo globale, la faticosa coerenza e, nel tempo stesso, la determinata volontà di perseguire un apprezzabile risultato finale: tanto per dare dignità ad un istituto che integra e completa la giuridificazione della complessa realtà delle relazioni di coppia. Ogni successivo decreto emanato, senza escludere i provvedimenti della giustizia amministrativa, ha apportato un significativo tassello alla costruzione dell’insieme, e ciò, non in maniera causale o estemporanea, bensì a ragion veduta: quasi ogni specificazione – anche quelle in prima facie apparentemente meno comprensibili – contenuta nei commi della legge 76 trova a posteriori la sua ragion d’essere, a riprova della ratio e della avveduta lungimiranza ad essa sottese. Ne è conferma l’inserimento in apertura del richiamo all’art. 3 Cost., superfluo, alla prima lettura, ma contenente anche il probabile suggerimento per la giustificazione di una successiva interpretazione analogica. E se il decreto n. 5 del 19 gennaio 2017 ancora si limitava a precisare, con l’inserimento all’interno del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, dell’art. 70-octies, che le parti devono rendere all’ufficiale di stato civile la dichiarazione di voler costituire l’unione e che «l’ufficiale dello stato civile, ricevuta la dichiarazione di cui al comma 2, fatta menzione del contenuto dei commi 11 e 12 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, iscrive l’atto di costituzione dell’unione civile nel registro…», lo stesso decreto n. 5, all’art. 4, preannunciava, con il successivo Decreto del Ministro dell’interno, da adottarsi entro trenta giorni, l’ultimo tassello di un mosaico da completare, in virtù del quale anche gli unendi avrebbero «pronunciato il loro sì», come taluno ha annotato, prima che l’ufficiale di stato civile li dichiarasse, con formale solennità, componenti dell’unione civile. Infatti, la formula di legge di cui all’Allegato 2, ove è specificato che il rappresentante dello Stato, vestito in forma ufficiale (i.e. con la fascia tricolore, come da precedente disposizione inserita dal decreto n. 5), «in una sala aperta al pubblico» e, dopo aver domandato «a ciascuna delle due persone da unire civilmente se intende unirsi civilmente con l’altro, e avendo ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni…», dichiara che è costituita l’unione civile. È comunque singolare che tali atti debbano trovare disciplina certa, alla fine, in asettici formulari della p.a., seppure vi è chi ritiene che, ex lege 76, la manifestazione di volontà delle parti esaurisca la fattispecie costitutiva dell’unione, e che tale formula, ragionevolmente da intendersi quale formula ad pompam, non abbia capacità di innovare il dato di legge. Da cui i dubbi sulla legittimità del d.m. 27 febbraio 2017 per mancato rispetto delle norme di legge, secondo il principio di legalità degli atti, atteso che nell’art. 1, comma 2˚, della l. n. 76/16, così come nel nuovo art. 70-octies d.P.R. 396/2000, si fa testualmente e rigorosamente menzione «soltanto» di una dichiarazione delle parti di voler costituire unione civile. E ciò, nella convinzione che, in base al criterio della volontà contraria del legislatore, la mancata previsione espressa di una dichiarazione dell’ufficiale di stato civile non sia riconducibile ad una svista… bensì rispondente ad una scelta legislativa. Configurandosi invece effettivamente una lacuna, l’applicazione analogica dovrà fondarsi sui consueti presupposti della somiglianza giuridica tra fattispecie omessa e fattispecie regolata, nonché sulla natura non eccezionale della disposizione particolare - in questo caso, quella matrimoniale - di cui fare estensione. Per taluni ricorrerebbe, in materia, il ricorso all’interpretazione sistematica, allo scopo di individuare la regula iuris applicabile in concreto attraverso l’interpretazione di norme per lo più generali e variamente dislocate nell’ordinamento. In tale ottica, i principi generali dell’ordinamento parrebbero configurarsi quale strumento di autointegrazione – sulla base di una concezione dogmatico-positiva in ordine alla loro natura e funzione – in quanto principi logici ricavabili per astrazione generalizzante dall’ordinamento stesso. Il percorso potrebbe così condurre alla costruzione di una disciplina dell’unione civile per taluni aspetti sovrapponibile a quella matrimoniale, ma solo in quanto anche la disciplina del matrimonio, speciale, ma non eccezionale, potrebbe costituire per alcuni aspetti l’attuazione di norme generali come tali applicabili a tutti quegli istituti che – a prescindere da qualsiasi somiglianza – possono ad esse essere riconducibili in un rapporto da species a genus. Da una diversa prospettiva, nel caso in analisi l’interprete è il legislatore stesso, rectius, il legislatore delegato, che colma le lacune e che, nella fattispecie de qua, integra ed amplia i confini della norma-fonte. E può soccorrere il richiamo alla sostanziale unitarietà dell’ordinamento giuridico – rectius, legislativo – e all’altrettanto sostanziale identità/continuità tra il legislatore delegante ed il legislatore delegato. E se è vero che l’esistenza delle lacune, per Kelsen, è un problema politico e non giuridico, alla luce della concezione nomo-dinamica dell’ordinamento gerarchico delle norme (Stufenbau), per la quale il processo dell’applicazione «quindi dell’interpretazione vel integrazione» del diritto è un processo di successive specificazioni e determinazioni di ogni norma inferiore rispetto a quella superiore, ne consegue che anche l’integrazione attuata dal legislatore «delegato» è, alla fine, un atto «politico», non solo giuridico. Infine, laddove le lacune della legge Cirinnà non appaiono sanabili se non attraverso l’integrazione analogica di una norma della disciplina matrimoniale, ricorrerebbe comunque una giustificazione costituzionalmente orientata, fondata sull’art. 3 Cost., forse non a caso allo stesso art. 1, comma 1, della l. n. 78/2016, richiamato. D’altronde, anche nel campo del diritto, il fondamento dell’analogia è l’uguaglianza dei rapporti, la proporzionalità, che per taluno costituisce il nucleo razionale della stessa nozione di giustizia distributiva. E questa consiste nella perelmaniana «regola di giustizia», non solo con riferimento all’applicazione delle regole, ma anche nel processo della loro produzione.
2019
978-88-495-3703-1
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