Con la crisi del sistema fondato sul diritto comune prese vita un ampio dibattito circa la necessità di superare la frammentazione politica, il particolarismo istituzionale ed amministrativo di una società contraddistinta dall’autonomismo e particolarismo degli ordinamenti giuridici, fonte di estremo disordine, di perenne incertezza del diritto e di grave malfunzionamento della giustizia. Come nel resto d'Europa, anche in Italia, il diritto comune, nella sua derivazione dal diritto romano, fu consi¬derato da molti il baluardo della conservazione di un siste¬ma iniquo, antiquato ed asfittico, da abbattere al più presto e sostituire con una rinnovata legislazione. Si ebbe così, nella seconda metà del secolo XVIII, un vero e proprio scontro tra conservatori e riformatori illumi¬nisti: per i primi, ogni rimedio alla degenerazione dell'ordi¬namento risiedeva nella ricerca da parte del giurista dei con¬temperamenti e dei correttivi interni al sistema, che doveva pertanto continuare ad essere imperniato sull' utrumque jus ed in particolare sul diritto romano, considerato come ratio scripta; i secondi, invece, reagendo decisamente al giusnatu¬ralismo, teorizzavano ed auspicavano la necessità dell'inter¬vento del legislatore quale protagonista del rinnovamento del diritto e della società. In questo contesto si rivela oltremodo interessante la posizione di oro che, come Francesco Mario Pagano e Giuseppe Marai Galanti, ponendosi in un certo qual senso a metà tra i fautori delle due contrapposte posizioni, esaltaro¬no la legislazione delle XII Tavole come un esempio mira¬bile di legislazione civile e politica, un modello da additare ai sovrani per le necessaria opera di riforma della legislazio¬ne e dello Stato. Dall'esame del pensiero di questi autori esce così raf¬forzata l' opinione per la quale, nel secolo dei Lumi, la critica serrata di molti autori fu essenzialmente diretta, piuttosto che contro il diritto romano in sé, nei confronti della scientia juris tradizionale, considerata ormai incapace di farsi interprete dei bisogni e della volontà dell'intero corpo sociale. In questa prospettiva si comprende, pertanto, come risulti essere solo apparentemente contraddittorio che le codificazioni nazionali, ritenute essenziali al fine di recidere una volta per tutte le cause fondamentali dell'incertezza che aveva regnato nel mondo del diritto durante i secoli prece¬denti, in realtà vennero ad essere realizzate attraverso un largo riutilizzo sia dell'impianto sistematico che di specifici contenuti della tradizione giuridica di derivazione romani¬stica di cui, non a caso, si continuò a sostenere, in netta prevalenza, l'inalterata valenza per la formazione del giurista

Il diritto romano nella cultura giuridica italiana del XVIII secolo

FASOLINO, Francesco
2008-01-01

Abstract

Con la crisi del sistema fondato sul diritto comune prese vita un ampio dibattito circa la necessità di superare la frammentazione politica, il particolarismo istituzionale ed amministrativo di una società contraddistinta dall’autonomismo e particolarismo degli ordinamenti giuridici, fonte di estremo disordine, di perenne incertezza del diritto e di grave malfunzionamento della giustizia. Come nel resto d'Europa, anche in Italia, il diritto comune, nella sua derivazione dal diritto romano, fu consi¬derato da molti il baluardo della conservazione di un siste¬ma iniquo, antiquato ed asfittico, da abbattere al più presto e sostituire con una rinnovata legislazione. Si ebbe così, nella seconda metà del secolo XVIII, un vero e proprio scontro tra conservatori e riformatori illumi¬nisti: per i primi, ogni rimedio alla degenerazione dell'ordi¬namento risiedeva nella ricerca da parte del giurista dei con¬temperamenti e dei correttivi interni al sistema, che doveva pertanto continuare ad essere imperniato sull' utrumque jus ed in particolare sul diritto romano, considerato come ratio scripta; i secondi, invece, reagendo decisamente al giusnatu¬ralismo, teorizzavano ed auspicavano la necessità dell'inter¬vento del legislatore quale protagonista del rinnovamento del diritto e della società. In questo contesto si rivela oltremodo interessante la posizione di oro che, come Francesco Mario Pagano e Giuseppe Marai Galanti, ponendosi in un certo qual senso a metà tra i fautori delle due contrapposte posizioni, esaltaro¬no la legislazione delle XII Tavole come un esempio mira¬bile di legislazione civile e politica, un modello da additare ai sovrani per le necessaria opera di riforma della legislazio¬ne e dello Stato. Dall'esame del pensiero di questi autori esce così raf¬forzata l' opinione per la quale, nel secolo dei Lumi, la critica serrata di molti autori fu essenzialmente diretta, piuttosto che contro il diritto romano in sé, nei confronti della scientia juris tradizionale, considerata ormai incapace di farsi interprete dei bisogni e della volontà dell'intero corpo sociale. In questa prospettiva si comprende, pertanto, come risulti essere solo apparentemente contraddittorio che le codificazioni nazionali, ritenute essenziali al fine di recidere una volta per tutte le cause fondamentali dell'incertezza che aveva regnato nel mondo del diritto durante i secoli prece¬denti, in realtà vennero ad essere realizzate attraverso un largo riutilizzo sia dell'impianto sistematico che di specifici contenuti della tradizione giuridica di derivazione romani¬stica di cui, non a caso, si continuò a sostenere, in netta prevalenza, l'inalterata valenza per la formazione del giurista
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