Il 10 giugno 1940 le finestre del balcone di Palazzo Venezia si aprivano su una folla immensa in attesa di ascoltare dalla viva voce di Mussolini la decisione di scendere in guerra, al fianco della Germania nazionalsocialista, contro la Francia e la Gran Bretagna. Era la conclusione del lungo periodo, durato circa 9 mesi, della cosiddetta «non belligeranza» durante la quale l’Italia fascista era rimasta ai margini della lotta rivestendo il ruolo, oltre all’Unione Sovietica, dell’unica grande potenza europea ancora neutrale. Nella memoria collettiva l’immagine di quella giornata ha finito per legarsi indissolubilmente ai drammatici eventi successivi, al crollo del fascismo, e alle tragiche conseguenze della sconfitta, rendendo più difficile una riflessione sulle motivazioni che avevano spinto Mussolini a quel fatale gesto. In modo simile, in sede storiografica si è rivelata molto forte la tentazione a scorgere in questa decisione del duce del fascismo le linee di un’altra continuità, quella che vedrebbe il 10 giugno come l’esito scontato e più o meno naturale non solo della deriva bellicista inaugurata con la guerra di Etiopia quanto di tutta la politica estera mussoliniana. Senza negare la vocazione imperialista dell’Italia fascista la presente ricerca rilegge gli eventi che vanno dal Patto di Monaco all’intervento evidenziando però la natura pragmatica e poco ideologica dell’azione di Mussolini in campo internazionale . In questa chiave di lettura la decisione della non belligeranza non appare tanto e solo il frutto di una scelta imposta dalle precarie condizioni economiche del paese ma si inserisce naturalmente nel tentativo di lungo periodo, illusorio ma non per questo tenacemente perseguito, di salvaguardare –certo con indubbio profitto per l’Italia del Littorio– l’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente. Tutte le scelte di Mussolini lungo il periodo considerato appaiono infatti dettate dalla consapevolezza che la vittoria di una delle due parti in lotta avrebbe costituito un grave colpo all’autonomia di manovra dell’Italia alterando in modo irreversibile la gerarchia delle grandi potenze. In particolare, la traiettoria diplomatica italiana, dall’idea di promuovere un blocco di paesi neutrali sotto l’egida di Roma alla posizione critica assunta nei confronti degli effetti del patto Molotov-Ribbentrop, appare improntata all’insegna della non tanto velata contrapposizione alla Germania allo scopo di convincere la dirigenza nazista dei pericoli della prosecuzione del conflitto al quale l’Italia non appariva per nulla disposta a partecipare. L’isolamento diplomatico del Reich –a dispetto della supposta solidarietà ideologica- che le iniziative di Ciano, pienamente sottoscritte e promosse da Mussolini, prefiguravano venne inoltre completato con l’atteggiamento di apertura nei confronti degli Alleati, soprattutto sul piano economico, verso i quali i segnali lanciati da Roma furono modulati nel senso di chiarire che la sbandierata indissolubilità dell’Asse non precludeva una fattiva volontà da parte italiana a fungere da elemento moderatore e canale di comunicazione privilegiato verso Berlino in vista di un’auspicata pace al tavolo negoziale. Il mutamento di rotta della diplomazia italiana a partire dall’incontro di Mussolini con Hitler al Brennero fu, infatti, più apparente che reale e dipendeva in primo luogo dalla esigenza di effettuare una pressione più decisa verso gli anglofrancesi onde far considerare loro i danni di un ingresso dell’Italia nel conflitto in mancanza di una soluzione negoziata. Poste le cose in questi termini, neanche la fine della cosiddetta drôle de guerre e la sconfitta militare della Francia mutarono le motivazioni di fondo della politica di Mussolini. Lungi dall’essere una decisione solo dettata dalla opportunistica volontà a soddisfare a buon mercato le proprie ambizioni imperiali la scelta del 10 giugno appare, infatti, volta all’insegna di voler accelerare la fine della guerra prima che una prosecuzione delle ostilità potesse sancire in modo definitivo la completa egemonia germanica sul continente. Alla luce delle fonti risulta chiaro quanto Mussolini si fosse convinto che l’intervento formale e non sostanziale dell’Italia in guerra doveva servire a convincere le sfere dirigenti occidentali della necessità di una resa a condizioni prima che un’ostinata resistenza avesse del tutto dilapidato i loro residui –ma ancora sensibili- margini di resistenza. Non altrimenti risulterebbero comprensibili sia le modalità e gli indirizzi strategici assolutamente passivi con cui l’intervento venne effettuato sia, soprattutto, la decisione di preavvisare con larghissimo margine di tempo, a partire dalla fine di maggio, le cancellerie anglofrancesi e gli stessi Stati Uniti della «irrevocabile» decisione presa a Palazzo Venezia.

L'Ora Segnata dal Destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all'Intervento (settembre 1938 - giugno 1940)

GIN, Emilio
2012-01-01

Abstract

Il 10 giugno 1940 le finestre del balcone di Palazzo Venezia si aprivano su una folla immensa in attesa di ascoltare dalla viva voce di Mussolini la decisione di scendere in guerra, al fianco della Germania nazionalsocialista, contro la Francia e la Gran Bretagna. Era la conclusione del lungo periodo, durato circa 9 mesi, della cosiddetta «non belligeranza» durante la quale l’Italia fascista era rimasta ai margini della lotta rivestendo il ruolo, oltre all’Unione Sovietica, dell’unica grande potenza europea ancora neutrale. Nella memoria collettiva l’immagine di quella giornata ha finito per legarsi indissolubilmente ai drammatici eventi successivi, al crollo del fascismo, e alle tragiche conseguenze della sconfitta, rendendo più difficile una riflessione sulle motivazioni che avevano spinto Mussolini a quel fatale gesto. In modo simile, in sede storiografica si è rivelata molto forte la tentazione a scorgere in questa decisione del duce del fascismo le linee di un’altra continuità, quella che vedrebbe il 10 giugno come l’esito scontato e più o meno naturale non solo della deriva bellicista inaugurata con la guerra di Etiopia quanto di tutta la politica estera mussoliniana. Senza negare la vocazione imperialista dell’Italia fascista la presente ricerca rilegge gli eventi che vanno dal Patto di Monaco all’intervento evidenziando però la natura pragmatica e poco ideologica dell’azione di Mussolini in campo internazionale . In questa chiave di lettura la decisione della non belligeranza non appare tanto e solo il frutto di una scelta imposta dalle precarie condizioni economiche del paese ma si inserisce naturalmente nel tentativo di lungo periodo, illusorio ma non per questo tenacemente perseguito, di salvaguardare –certo con indubbio profitto per l’Italia del Littorio– l’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente. Tutte le scelte di Mussolini lungo il periodo considerato appaiono infatti dettate dalla consapevolezza che la vittoria di una delle due parti in lotta avrebbe costituito un grave colpo all’autonomia di manovra dell’Italia alterando in modo irreversibile la gerarchia delle grandi potenze. In particolare, la traiettoria diplomatica italiana, dall’idea di promuovere un blocco di paesi neutrali sotto l’egida di Roma alla posizione critica assunta nei confronti degli effetti del patto Molotov-Ribbentrop, appare improntata all’insegna della non tanto velata contrapposizione alla Germania allo scopo di convincere la dirigenza nazista dei pericoli della prosecuzione del conflitto al quale l’Italia non appariva per nulla disposta a partecipare. L’isolamento diplomatico del Reich –a dispetto della supposta solidarietà ideologica- che le iniziative di Ciano, pienamente sottoscritte e promosse da Mussolini, prefiguravano venne inoltre completato con l’atteggiamento di apertura nei confronti degli Alleati, soprattutto sul piano economico, verso i quali i segnali lanciati da Roma furono modulati nel senso di chiarire che la sbandierata indissolubilità dell’Asse non precludeva una fattiva volontà da parte italiana a fungere da elemento moderatore e canale di comunicazione privilegiato verso Berlino in vista di un’auspicata pace al tavolo negoziale. Il mutamento di rotta della diplomazia italiana a partire dall’incontro di Mussolini con Hitler al Brennero fu, infatti, più apparente che reale e dipendeva in primo luogo dalla esigenza di effettuare una pressione più decisa verso gli anglofrancesi onde far considerare loro i danni di un ingresso dell’Italia nel conflitto in mancanza di una soluzione negoziata. Poste le cose in questi termini, neanche la fine della cosiddetta drôle de guerre e la sconfitta militare della Francia mutarono le motivazioni di fondo della politica di Mussolini. Lungi dall’essere una decisione solo dettata dalla opportunistica volontà a soddisfare a buon mercato le proprie ambizioni imperiali la scelta del 10 giugno appare, infatti, volta all’insegna di voler accelerare la fine della guerra prima che una prosecuzione delle ostilità potesse sancire in modo definitivo la completa egemonia germanica sul continente. Alla luce delle fonti risulta chiaro quanto Mussolini si fosse convinto che l’intervento formale e non sostanziale dell’Italia in guerra doveva servire a convincere le sfere dirigenti occidentali della necessità di una resa a condizioni prima che un’ostinata resistenza avesse del tutto dilapidato i loro residui –ma ancora sensibili- margini di resistenza. Non altrimenti risulterebbero comprensibili sia le modalità e gli indirizzi strategici assolutamente passivi con cui l’intervento venne effettuato sia, soprattutto, la decisione di preavvisare con larghissimo margine di tempo, a partire dalla fine di maggio, le cancellerie anglofrancesi e gli stessi Stati Uniti della «irrevocabile» decisione presa a Palazzo Venezia.
2012
9788861348318
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