Quello che oggi si identifica come teatro sociale è un complesso di esperienze non allineate di teatro applicate ad ambiti non specialistici, a luoghi e individui non deputati alla costruzione e alla rappresentazione teatrale di tipo professionale in special modo, ma non esclusivamente, alle cosiddette “aree del disagio”. I progetti realizzati in questi contesti prevedono, pertanto, l’adozione di un ampio concetto di teatralità in luogo di una concezione più ortodossa dell’arte rappresentativa. Il teatro nelle carceri rientra a pieno in questa tipologia di intervento rispondendo sia ad un’emergenza collettiva che a un difetto di comunicazione. In Italia il teatro è stato ammesso fra le attività “trattamentali” finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti a partire dagli anni ’80 ma solo negli ultimi anni l’attenzione degli operatori teatrali si concentra anche sulle realtà femminili. Alcune specificità legate al mondo delle donne aggravano nella reclusione fenomeni di emarginazione, discriminazione e depressione che rappresentano al contempo gli ostacoli e i punti di forza sui quali poggia il laboratorio teatrale. L’analisi dell’esperienza dell’associazione “Maniphesta Teatro” nelle carceri femminili concepisce la prigione come luogo di esplorazione di linguaggi e matrici culturali disparate, spazio nel quale la marginalità e la detenzione diventano occasione di conoscenza profonda, indagine corporea e autoanalisi. “Maniphesta Teatro” individua prospettive differenti, spostamenti dai sentieri battuti, aperture alla sfida pedagogica e artistica al fine di elaborare pratiche di intervento che utilizzino le forme del teatro nella definizione e lo sviluppo di ulteriori orizzonti di senso.

Il teatro invisibile

SAPIENZA, Annamaria
2013-01-01

Abstract

Quello che oggi si identifica come teatro sociale è un complesso di esperienze non allineate di teatro applicate ad ambiti non specialistici, a luoghi e individui non deputati alla costruzione e alla rappresentazione teatrale di tipo professionale in special modo, ma non esclusivamente, alle cosiddette “aree del disagio”. I progetti realizzati in questi contesti prevedono, pertanto, l’adozione di un ampio concetto di teatralità in luogo di una concezione più ortodossa dell’arte rappresentativa. Il teatro nelle carceri rientra a pieno in questa tipologia di intervento rispondendo sia ad un’emergenza collettiva che a un difetto di comunicazione. In Italia il teatro è stato ammesso fra le attività “trattamentali” finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti a partire dagli anni ’80 ma solo negli ultimi anni l’attenzione degli operatori teatrali si concentra anche sulle realtà femminili. Alcune specificità legate al mondo delle donne aggravano nella reclusione fenomeni di emarginazione, discriminazione e depressione che rappresentano al contempo gli ostacoli e i punti di forza sui quali poggia il laboratorio teatrale. L’analisi dell’esperienza dell’associazione “Maniphesta Teatro” nelle carceri femminili concepisce la prigione come luogo di esplorazione di linguaggi e matrici culturali disparate, spazio nel quale la marginalità e la detenzione diventano occasione di conoscenza profonda, indagine corporea e autoanalisi. “Maniphesta Teatro” individua prospettive differenti, spostamenti dai sentieri battuti, aperture alla sfida pedagogica e artistica al fine di elaborare pratiche di intervento che utilizzino le forme del teatro nella definizione e lo sviluppo di ulteriori orizzonti di senso.
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