Il milleottocentesimo anniversario dell’epocale Editto con cui Antonino Caracalla concedeva la cittadinanza romana a (quasi) tutti gli abitanti dell’ecumene fornisce l’occasione per ampliare ed arricchire il dibattito storiografico con una riflessione più strettamente penalistica, naturalmente ispirata dalla attualizzazione dei problemi che hanno da sempre accompagnato lo sviluppo delle politiche di integrazione nella definizione dei rapporti tra Stato e cittadinanza. Se, ad una attenta analisi, la cittadinanza imperiale espansiva lega la sua ratio e i suoi contenuti a ragioni di ordine più materiale che onorifico, del resto confermate anche in quell’unicum che trova nell’universalismo politico, associato ad un processo di acculturazione volontaria, le basi per una tolleranza speculativa dei diritti locali funzionale a rendere meno traumatico il prelievo fiscale determinato dall’allargamento della base contributiva necessaria a generare risorse per la stabilizzazione del potere riducendo il dissenso critico delle classi militari, è nel parallelismo tra la Roma imperiale e gli imperialismi moderni che la cittadinanza, pur affidata ad evidenti procedimenti di formalizzazione acquisitiva, continuava e continua a muoversi su politiche di integrazione speculative ovvero limitate, valorizzando una logica del contingente particolarmente votata, non alla stabilizzazione interna, ma ad una destabilizzazione di stati indipendenti, esclusivamente funzionale alla logica del profitto. Ed è in tale contesto che, gli imperialismi commerciali e coloniali di stampo anglosassone, trovano la loro naturale evoluzione che, segnata dall’era della globalizzazione, si mostra capace di determinare anche le politiche di integrazione che, confrontandosi con comunità multietniche e polietniche, sono chiamate a fare sintesi delle fisiologiche frizioni che la relazione tra universalismo e particolarismo trae da fenomeni di convivenza ispirati da diversità culturale. Il reato culturalmente motivato trova qui terreno fertile e, per questo, una riflessione dommatica sembra imporsi al punto che, assumendo l’uguaglianza sostanziale come parametro di ragionevolezza, la rilevanza penale di un comportamento, in uno stato multiculturale, sarà necessariamente filtrata dalla verifica di una ragionevole condivisione di regole comuni di civiltà che, espressione di un concetto dinamico di cultura, saranno ispirate da quel principio di tolleranza cosmopolitica che, in uno stato costituzionale di diritto, assurgerà a criterio fondante per la elaborazione di un terreno di sintesi in grado di tenere insieme il diritto alla propria cultura con la tutela dei diritti fondamentali, impedendo così ogni imposizione meramente maggioritaria legata alla assolutizzazione di un relativismo elevato a valore. Acculturazione volontaria e diritto penale della tolleranza di uno stato sociale di diritto imprimono una evoluzione espansiva al concetto di cittadinanza che, assolutizzato sull’esercizio di diritti politici più che civili, già normativamente garantiti nei diritti fondamentali dell’individuo-straniero, porta al superamento di estrinsecazioni eccessivamente formalizzate, ius sanguinis e ius soli le quali, anche con il conforto della riflessione penalistica, sembrano destinate a trovare un loro terreno di razionalizzazione in quello ius culturae che, eliminando ogni ostacolo alla piena partecipazione del ‘non cittadino’ al potere di governo, si proporrà come l’esito di un percorso a gradi, non meramente nozionistico e tecnico, ma legato a ragionevoli parametri espressione di politiche di inculturazione finalizzate al riconoscimento di un’appartenenza ad una identità cosmopolitica nella verifica di un metodo democratico atto a garantire i valori minimi di riferimento per l’affermazione della dignità dell’individuo in una società dei diritti.
Cittadinanza espansiva ed espansione della cittadinanza. Politiche di integrazione e motivazione culturale al reato tra la roma antica e il mondo attuale
SESSA, Antonino
2014-01-01
Abstract
Il milleottocentesimo anniversario dell’epocale Editto con cui Antonino Caracalla concedeva la cittadinanza romana a (quasi) tutti gli abitanti dell’ecumene fornisce l’occasione per ampliare ed arricchire il dibattito storiografico con una riflessione più strettamente penalistica, naturalmente ispirata dalla attualizzazione dei problemi che hanno da sempre accompagnato lo sviluppo delle politiche di integrazione nella definizione dei rapporti tra Stato e cittadinanza. Se, ad una attenta analisi, la cittadinanza imperiale espansiva lega la sua ratio e i suoi contenuti a ragioni di ordine più materiale che onorifico, del resto confermate anche in quell’unicum che trova nell’universalismo politico, associato ad un processo di acculturazione volontaria, le basi per una tolleranza speculativa dei diritti locali funzionale a rendere meno traumatico il prelievo fiscale determinato dall’allargamento della base contributiva necessaria a generare risorse per la stabilizzazione del potere riducendo il dissenso critico delle classi militari, è nel parallelismo tra la Roma imperiale e gli imperialismi moderni che la cittadinanza, pur affidata ad evidenti procedimenti di formalizzazione acquisitiva, continuava e continua a muoversi su politiche di integrazione speculative ovvero limitate, valorizzando una logica del contingente particolarmente votata, non alla stabilizzazione interna, ma ad una destabilizzazione di stati indipendenti, esclusivamente funzionale alla logica del profitto. Ed è in tale contesto che, gli imperialismi commerciali e coloniali di stampo anglosassone, trovano la loro naturale evoluzione che, segnata dall’era della globalizzazione, si mostra capace di determinare anche le politiche di integrazione che, confrontandosi con comunità multietniche e polietniche, sono chiamate a fare sintesi delle fisiologiche frizioni che la relazione tra universalismo e particolarismo trae da fenomeni di convivenza ispirati da diversità culturale. Il reato culturalmente motivato trova qui terreno fertile e, per questo, una riflessione dommatica sembra imporsi al punto che, assumendo l’uguaglianza sostanziale come parametro di ragionevolezza, la rilevanza penale di un comportamento, in uno stato multiculturale, sarà necessariamente filtrata dalla verifica di una ragionevole condivisione di regole comuni di civiltà che, espressione di un concetto dinamico di cultura, saranno ispirate da quel principio di tolleranza cosmopolitica che, in uno stato costituzionale di diritto, assurgerà a criterio fondante per la elaborazione di un terreno di sintesi in grado di tenere insieme il diritto alla propria cultura con la tutela dei diritti fondamentali, impedendo così ogni imposizione meramente maggioritaria legata alla assolutizzazione di un relativismo elevato a valore. Acculturazione volontaria e diritto penale della tolleranza di uno stato sociale di diritto imprimono una evoluzione espansiva al concetto di cittadinanza che, assolutizzato sull’esercizio di diritti politici più che civili, già normativamente garantiti nei diritti fondamentali dell’individuo-straniero, porta al superamento di estrinsecazioni eccessivamente formalizzate, ius sanguinis e ius soli le quali, anche con il conforto della riflessione penalistica, sembrano destinate a trovare un loro terreno di razionalizzazione in quello ius culturae che, eliminando ogni ostacolo alla piena partecipazione del ‘non cittadino’ al potere di governo, si proporrà come l’esito di un percorso a gradi, non meramente nozionistico e tecnico, ma legato a ragionevoli parametri espressione di politiche di inculturazione finalizzate al riconoscimento di un’appartenenza ad una identità cosmopolitica nella verifica di un metodo democratico atto a garantire i valori minimi di riferimento per l’affermazione della dignità dell’individuo in una società dei diritti.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.