Il mondo delle comunicazioni digitali affronta una crisi non avvertita ancora chiaramente dalla massa degli utenti, che ad ora hanno solo percepito una appena apprezzabile diminuzione della quantità (e completezza) dei dati che compaiono in videata, nell’immediato, ad una interrogazione dei search engines preferiti. Nello stesso periodo si è notata – con impazienza; più di recente con stizzita assuefazione – la comparsa della comunicazione riguardante la presenza dei cookies all’atto del downloading, e la presa visione e relativa accettazione delle informative cui è tenuto ogni prestatore di servizi dell’e-commerce dai più viene ormai rilevata quando è d’obbligo ricaricare la precedente pagina – per spuntare l’apposita casella di accettazione del trattamento dati – al momento della conclusione di un acquisto on line. Ma certamente ha non poco sorpreso la comunicazione di Google con la ‘sorprendente’ faq, in apertura, concernente “la recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea relativa al diritto all’oblio”. Dinanzi al proclama dell’Internet Service Provider anche il più disattento degli internauti ha preso contezza dell’aliquid novi che aleggia nel web. Le forti questioni che hanno di recente attualizzato i conflitti tra privacy, diritto d’autore, libertà di espressione rimasti irrisolti, si erano concluse, a livello comunitario, con il radicarsi dei giudici di Lussemburgo al dettato delle direttive, nel necessario barcamenarsi tra il rispetto di proporzionalità e competenze, e l’adusato e pressoché sterile invito/richiamo che sollecitava l’intervento dei Legislatori nazionali. Con un revirement sorprendente i giudici comunitari hanno ricercato e trovato la soluzione – forse di comodo, ma anche ironicamente ispirata a quel principio della deep pocket ben noto agli antesignani ed agli odierni seguaci dell’interpretazione economica del diritto -, accollando il costo della tutela dei diritti fondamentali a…chi meglio potrebbe sostenerlo. Ed ecco che, mentre in precedenza il gatepeaker «cui si applica la direttiva sul commercio elettronico», non poteva essere assoggettato, nello Stato di residenza della vittima, «a prescrizioni più rigorose di quelle previste dal diritto dello Stato membro in cui è stabilito», ora invece, per la Corte di Giustizia, poiché le informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, indicizzate in modo automatico, memorizzate temporaneamente e, infine, messe a disposizione degli utenti possono contenere dati personali, l’attività del motore di ricerca deve essere qualificata come «trattamento di dati personali» ed il Search Engine deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento. La responsabilità torna a gravare su chi gestisce e trae profitto dai data logs, bypassando con rapidità esponenziale le questioni precedentemente addotte del luogo – materiale – ove era ubicata la banca dati o l’attività principale del provider e del precedente divieto di assoggettarlo a prescrizioni più rigorose di quelle previste dal diritto dello Stato membro in cui è stabilito. La meticolosità della sentenza va oltre, col puntualizzare gli altri obblighi che dalle norme invocate discendono: «il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei links verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita». L’utente interessato potrà chiedere infatti che il dato che lo riguarda non venga più messo a disposizione del grande pubblico tramite l’inclusione in un elenco di risultati. Se, da una parte vi è chi plaude alla trasformazione, compiuta nello spazio di due sentenze ( dei giudici di Lussemburgo in Giudici dei diritti con vocazione nomofilattica – rectius nomopoietica – sono per certo fondate le critiche diffuse che hanno percorso la dottrina continentale, per l’aver concesso a Google la carte blanche nella gestione dei personal data, confidando nella sua capacità di conciliare la libertà di espressione, di informazione, di conoscenza ed il diritto alla privacy, qui declinato anche come diritto all’oblio. Tra i rischi paventati dalla dottrina, la possibilità che l’ISP indulga, eyes closed, alla tecnica del notice and take down.

PRIVACY E DIRITTO ALL’OBLIO

PARISI, Annamaria Giulia
2016-01-01

Abstract

Il mondo delle comunicazioni digitali affronta una crisi non avvertita ancora chiaramente dalla massa degli utenti, che ad ora hanno solo percepito una appena apprezzabile diminuzione della quantità (e completezza) dei dati che compaiono in videata, nell’immediato, ad una interrogazione dei search engines preferiti. Nello stesso periodo si è notata – con impazienza; più di recente con stizzita assuefazione – la comparsa della comunicazione riguardante la presenza dei cookies all’atto del downloading, e la presa visione e relativa accettazione delle informative cui è tenuto ogni prestatore di servizi dell’e-commerce dai più viene ormai rilevata quando è d’obbligo ricaricare la precedente pagina – per spuntare l’apposita casella di accettazione del trattamento dati – al momento della conclusione di un acquisto on line. Ma certamente ha non poco sorpreso la comunicazione di Google con la ‘sorprendente’ faq, in apertura, concernente “la recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea relativa al diritto all’oblio”. Dinanzi al proclama dell’Internet Service Provider anche il più disattento degli internauti ha preso contezza dell’aliquid novi che aleggia nel web. Le forti questioni che hanno di recente attualizzato i conflitti tra privacy, diritto d’autore, libertà di espressione rimasti irrisolti, si erano concluse, a livello comunitario, con il radicarsi dei giudici di Lussemburgo al dettato delle direttive, nel necessario barcamenarsi tra il rispetto di proporzionalità e competenze, e l’adusato e pressoché sterile invito/richiamo che sollecitava l’intervento dei Legislatori nazionali. Con un revirement sorprendente i giudici comunitari hanno ricercato e trovato la soluzione – forse di comodo, ma anche ironicamente ispirata a quel principio della deep pocket ben noto agli antesignani ed agli odierni seguaci dell’interpretazione economica del diritto -, accollando il costo della tutela dei diritti fondamentali a…chi meglio potrebbe sostenerlo. Ed ecco che, mentre in precedenza il gatepeaker «cui si applica la direttiva sul commercio elettronico», non poteva essere assoggettato, nello Stato di residenza della vittima, «a prescrizioni più rigorose di quelle previste dal diritto dello Stato membro in cui è stabilito», ora invece, per la Corte di Giustizia, poiché le informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, indicizzate in modo automatico, memorizzate temporaneamente e, infine, messe a disposizione degli utenti possono contenere dati personali, l’attività del motore di ricerca deve essere qualificata come «trattamento di dati personali» ed il Search Engine deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento. La responsabilità torna a gravare su chi gestisce e trae profitto dai data logs, bypassando con rapidità esponenziale le questioni precedentemente addotte del luogo – materiale – ove era ubicata la banca dati o l’attività principale del provider e del precedente divieto di assoggettarlo a prescrizioni più rigorose di quelle previste dal diritto dello Stato membro in cui è stabilito. La meticolosità della sentenza va oltre, col puntualizzare gli altri obblighi che dalle norme invocate discendono: «il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei links verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita». L’utente interessato potrà chiedere infatti che il dato che lo riguarda non venga più messo a disposizione del grande pubblico tramite l’inclusione in un elenco di risultati. Se, da una parte vi è chi plaude alla trasformazione, compiuta nello spazio di due sentenze ( dei giudici di Lussemburgo in Giudici dei diritti con vocazione nomofilattica – rectius nomopoietica – sono per certo fondate le critiche diffuse che hanno percorso la dottrina continentale, per l’aver concesso a Google la carte blanche nella gestione dei personal data, confidando nella sua capacità di conciliare la libertà di espressione, di informazione, di conoscenza ed il diritto alla privacy, qui declinato anche come diritto all’oblio. Tra i rischi paventati dalla dottrina, la possibilità che l’ISP indulga, eyes closed, alla tecnica del notice and take down.
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