Il ruolo che in roman law è svolto da clausole generali come quella di buona fede - in common law adempiuto dalla reasonableness -, consente al giudice di interpretare con la necessaria flessibilità il criterio della proximate cause del fatto lesivo, affrancandosi dalle forme prefissate di altre categorie giuridiche, per privilegiare il diritto della vittima del tort ad essere risarcita della lesione subita. L’interprete italiano e francese, come quello di common law, appaiono ben determinati ad accollare a chi ha agito - mosso dalla specifica intenzione dolosa - anche le conseguenze remote ed indirette della sua condotta biasimevole. Per sua parte, il giudice anglo-americano mostra di condividere il principio fondante del sistema originario della responsabilità aquiliana: l’attribuzione certa, all’agente, del damnum iniuria datum. E ciò anche discostandosi da un precedent sempre seguito, in base al quale “il motivo per cui una persona agisce non può mai far diventare illecito un atto lecito”. Il principle che subentra sancisce, invece, che “un’azione talmente riprovevole quale è quella ispirata dal dolo impone e giustifica il ricorso a un canone giuridico più favorevole al danneggiato”. Dunque, per l’interprete di common law, nella valutazione del nesso causale l’imputabilità della condotta maliziosa sembra atteggiarsi a clausola generale non verbalizzata del giudizio di responsabilità, mentre non trova spazio l’altra accezione latina del dolus bonus: quella sollertia che viene a configurarsi si adversus hostem latronemve quis machinetur (D. 4.3.1.3, Ulp. 11 ad ed.), come pure la quaestio dei gradi della colpa, dalla culpa lata alla culpa levissima presenti in civil law, ma negati – e quasi irrisi – dalle corti d’Oltremanica.

TORT, LIABILITY AND LEX AQUILIA

PARISI, Annamaria Giulia
2016-01-01

Abstract

Il ruolo che in roman law è svolto da clausole generali come quella di buona fede - in common law adempiuto dalla reasonableness -, consente al giudice di interpretare con la necessaria flessibilità il criterio della proximate cause del fatto lesivo, affrancandosi dalle forme prefissate di altre categorie giuridiche, per privilegiare il diritto della vittima del tort ad essere risarcita della lesione subita. L’interprete italiano e francese, come quello di common law, appaiono ben determinati ad accollare a chi ha agito - mosso dalla specifica intenzione dolosa - anche le conseguenze remote ed indirette della sua condotta biasimevole. Per sua parte, il giudice anglo-americano mostra di condividere il principio fondante del sistema originario della responsabilità aquiliana: l’attribuzione certa, all’agente, del damnum iniuria datum. E ciò anche discostandosi da un precedent sempre seguito, in base al quale “il motivo per cui una persona agisce non può mai far diventare illecito un atto lecito”. Il principle che subentra sancisce, invece, che “un’azione talmente riprovevole quale è quella ispirata dal dolo impone e giustifica il ricorso a un canone giuridico più favorevole al danneggiato”. Dunque, per l’interprete di common law, nella valutazione del nesso causale l’imputabilità della condotta maliziosa sembra atteggiarsi a clausola generale non verbalizzata del giudizio di responsabilità, mentre non trova spazio l’altra accezione latina del dolus bonus: quella sollertia che viene a configurarsi si adversus hostem latronemve quis machinetur (D. 4.3.1.3, Ulp. 11 ad ed.), come pure la quaestio dei gradi della colpa, dalla culpa lata alla culpa levissima presenti in civil law, ma negati – e quasi irrisi – dalle corti d’Oltremanica.
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