Il diritto di proprietà ci appare come un diritto 'senza tempo', che ha resistito, nel corso dei secoli, a innumerevoli variazioni economiche, capovolgimenti politici, ribaltamenti ideologici. Al tempo stesso, il diritto di proprietà si rivela estremamente mutevole nei tempi e nei luoghi, per il suo contenuto, il suo oggetto, la sua funzione, la sua disciplina, la sua oscillante rappresentazione come prestigioso status symbol e baluardo della libertà individuale, o, viceversa, come strumento di discriminazione e insegna del più colpevole parassitismo sociale. L’Europa sembra guidarci oggi verso una concezione della ‘proprietà tradizionale’, tale da oscurare in qualche misura la funzione sociale attribuita alla proprietà nel pensiero cattolico e politico del primo Novecento. Tanto la Convenzione Europea dei Diritto dell’Uomo (CEDU), tanto la giurisprudenza della Corte EDU, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, hanno rimarcato che la proprietà privata è caratterizzata dalla dominicalità. Questa impostazione, negli anni Ottanta, ha determinato in Italia, quale effetto positivo, l’obsolescenza del fenomeno della ‘occupazione acquisitiva’ da parte della Pubblica Amministrazione, nonché della prassi di liquidare indennizzi soltanto simbolici in caso di esproprio di beni privati per pubblica utilità. Nella Carta di Nizza del 2000, il diritto di proprietà è trattato sotto il titolo dedicato alle Libertà, così riecheggiando il binomio lockiano proprietà-libertà. Nel libro VIII del Draft of Common Frame of Reference (DCFR) del 2009, la proprietà viene definita come un diritto assoluto ed esclusivo. Nell’apparato di commento apposto al testo, si legge che tale nozione di proprietà deriva direttamente dalla tradizione romana e corrisponde in pieno alle definizioni del diritto di proprietà accolte nelle codificazioni europee. Si ribadisce che la proprietà privata applicata in Europa è un istituto del diritto romano consistente in un potere assoluto e illimitato, espressione del potere dominicale riconosciuto al pater familias. A prescindere dalla considerazione che nella lunga esperienza giuridica romana la proprietà privata mutò considerevolmente carattere e disciplina, non restando mai uguale a sé stessa, occorre prendere atto che nel contesto europeo è tornata alla ribalta una concezione della proprietà individuale, che sembrava definitivamente superata dalle dottrine di Karl Marx, dalle rivoluzioni russa e cinese, dall’affermazione della funzione sociale della proprietà. Le ragioni del ritorno a concezioni imperanti nel passato non possono essere comprese, né adeguatamente valutate, se non si ripercorrono le tappe fondamentali del lungo dibattito tuttora in corso tra filosofi, politologi, giuristi ed economisti circa il significato e il valore della proprietà individuale. Nel campo della riflessione filosofica svoltasi nel XX sec., il contributo più cospicuo si deve al cognitivismo informato alle neuroscienze, che, nell’analisi del concetto di proprietà, ha ricercato un significato minimale e universalmente valido del termine ‘proprietà’, facendo riferimento alle modalità deontiche, cioè a obblighi, diritti, divieti, oneri, facoltà, che regolano il rapporto tra soggetti in ordine ai beni. Questo approccio, che ha coinvolto filosofi e giuristi, ha attecchito in particolare nei Paesi di Common Law, dove l'ambigua distinzione terminologica tra ownership e property, nonché la concezione di property in termini di vasta e generica ‘appartenenza di beni’ hanno stimolato gli studiosi alla ricerca di un significato ‘minimo’, che fungesse da comune denominatore per tutti i rapporti proprietari. La rappresentazione più significativa della proprietà cui è approdato questo indirizzo si può individuare nelle metafore ‘bundle of rights’ e ‘bundle of sticks’, mediante le quali la property viene descritta come somma di diritti, obblighi, oneri e facoltà – diversamente modulabili in ragione della maggiore o minore intensità dei poteri dell’owner sul bene – e non invece come sintesi degli stessi (rappresentazione, quest’ultima, adeguata invece al concetto giuridico di proprietà di Civil Law). Un altro importante flusso di pensiero, che ha coinvolto in prevalenza filosofi, politici ed economisti, è quello riconducibile alle teorie liberalista, libertarista, proprietarista, neoproprietarista. Il neoproprietarismo (radicalmente contestato, e contrastato con proposte di sapore utopico, da parte di Van Parijs e Piketty) consiste in una variante del proprietarismo legato al libertarismo individualista classico. Sviluppatosi a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il neoproprietarismo segna il ritorno all'idea di una proprietà libera e assoluta, che ora ha ad oggetto non più le terre, ma altri beni, tra cui in prevalenza l’industria. La proprietà viene intesa come frutto di lavoro, impegno, ingegno e capacità personali, dunque, in un’ottica meritocratica, essa si considera ‘giusta’ e meritevole di difesa assoluta. A differenza del proprietarismo classico, però, il neoproprietarismo si congiunge all’anarco-capitalismo, per il rifiuto opposto all'intervento dello Stato nella protezione della proprietà individuale. Da quest’ultimo punto di vista, possiamo ritenere che l'impostazione del diritto europeo si discosti dalla visuale neoproprietarista, nel momento in cui investe gli Stati membri della funzione di tutelare la proprietà privata, secondo le logiche del proprietarismo classico. Per quanto le critiche rivolte negli ultimi anni alle concezioni proprietariste e neoproprietariste siano state minuziose e ben argomentate, le alternative proposte risultano in larga parte utopistiche, nella misura in cui mostrano di disconoscere l'innatismo del concetto di proprietà nell'essere umano, così come dimostrato dal cognitivismo. D’altra parte, la storia ci insegna che una proprietà del tutto assoluta, illimitata e priva di una qualche ‘funzione sociale’ (quella stigmatizzata dagli avversari del proprietarismo e neoproprietarismo) non è mai realmente esistita. Tanto risulta dalle fonti antiche concernenti: le distanze da osservare tra campi ed edifici, le limitazioni derivanti dai rapporti di vicinato, gli oneri gravanti sui proprietari frontisti in ordine alla riparazione delle pubbliche vie, gli obblighi di riparare o di consentire la riparazione di fognature site in luoghi privati, l’ablazione della proprietà per pubblica utilità, i limiti e gli obblighi imposti ai proprietari di immobili urbani per la preservazione del decus urbium, l’imposta fondiaria. La dominicalità romana, pertanto, è stata sempre temperata da una serie di limiti e di vincoli. Per altro verso, l’immagine di una proprietà piena, illimitata ed esclusiva non è una invenzione della dottrina settecentesca e delle successive correnti proprietariste. Le fonti romane non mancano di ricordare i tempi in cui i poteri proprietari del pater erano modellati sulla sovranità regia, in cui i confini della proprietà privata erano sacri e inviolabili, in cui la tutela processuale della proprietà veniva affermata mediante l’affermazione del «meum esse», in cui era possibile rifiutarsi di fare installare le condutture dell'acquedotto pubblico sulle proprie terre. Le definizioni della proprietà privata che leggiamo nei codici europei, nonché le espressioni utilizzate nel Draft Common Frame of Reference del 2009 e nel relativo commento, rispecchiano un’antica suggestione divenuta mito, ideale astratto, che comunque in Europa non rischia di concretizzarsi, grazie tanto alla giurisprudenza della Corte EDU, attenta a bilanciare le ragioni dei proprietari con l'interesse generale, tanto alle fitte legislazioni nazionali che già limitano in modo consistente gli abusi e gli usi antisociali della proprietà privata, in vista delle esigenze collettive e nel rispetto dei valori costituzionali.

Dalla dominicalità al neoproprietarismo

Solidoro
2023-01-01

Abstract

Il diritto di proprietà ci appare come un diritto 'senza tempo', che ha resistito, nel corso dei secoli, a innumerevoli variazioni economiche, capovolgimenti politici, ribaltamenti ideologici. Al tempo stesso, il diritto di proprietà si rivela estremamente mutevole nei tempi e nei luoghi, per il suo contenuto, il suo oggetto, la sua funzione, la sua disciplina, la sua oscillante rappresentazione come prestigioso status symbol e baluardo della libertà individuale, o, viceversa, come strumento di discriminazione e insegna del più colpevole parassitismo sociale. L’Europa sembra guidarci oggi verso una concezione della ‘proprietà tradizionale’, tale da oscurare in qualche misura la funzione sociale attribuita alla proprietà nel pensiero cattolico e politico del primo Novecento. Tanto la Convenzione Europea dei Diritto dell’Uomo (CEDU), tanto la giurisprudenza della Corte EDU, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, hanno rimarcato che la proprietà privata è caratterizzata dalla dominicalità. Questa impostazione, negli anni Ottanta, ha determinato in Italia, quale effetto positivo, l’obsolescenza del fenomeno della ‘occupazione acquisitiva’ da parte della Pubblica Amministrazione, nonché della prassi di liquidare indennizzi soltanto simbolici in caso di esproprio di beni privati per pubblica utilità. Nella Carta di Nizza del 2000, il diritto di proprietà è trattato sotto il titolo dedicato alle Libertà, così riecheggiando il binomio lockiano proprietà-libertà. Nel libro VIII del Draft of Common Frame of Reference (DCFR) del 2009, la proprietà viene definita come un diritto assoluto ed esclusivo. Nell’apparato di commento apposto al testo, si legge che tale nozione di proprietà deriva direttamente dalla tradizione romana e corrisponde in pieno alle definizioni del diritto di proprietà accolte nelle codificazioni europee. Si ribadisce che la proprietà privata applicata in Europa è un istituto del diritto romano consistente in un potere assoluto e illimitato, espressione del potere dominicale riconosciuto al pater familias. A prescindere dalla considerazione che nella lunga esperienza giuridica romana la proprietà privata mutò considerevolmente carattere e disciplina, non restando mai uguale a sé stessa, occorre prendere atto che nel contesto europeo è tornata alla ribalta una concezione della proprietà individuale, che sembrava definitivamente superata dalle dottrine di Karl Marx, dalle rivoluzioni russa e cinese, dall’affermazione della funzione sociale della proprietà. Le ragioni del ritorno a concezioni imperanti nel passato non possono essere comprese, né adeguatamente valutate, se non si ripercorrono le tappe fondamentali del lungo dibattito tuttora in corso tra filosofi, politologi, giuristi ed economisti circa il significato e il valore della proprietà individuale. Nel campo della riflessione filosofica svoltasi nel XX sec., il contributo più cospicuo si deve al cognitivismo informato alle neuroscienze, che, nell’analisi del concetto di proprietà, ha ricercato un significato minimale e universalmente valido del termine ‘proprietà’, facendo riferimento alle modalità deontiche, cioè a obblighi, diritti, divieti, oneri, facoltà, che regolano il rapporto tra soggetti in ordine ai beni. Questo approccio, che ha coinvolto filosofi e giuristi, ha attecchito in particolare nei Paesi di Common Law, dove l'ambigua distinzione terminologica tra ownership e property, nonché la concezione di property in termini di vasta e generica ‘appartenenza di beni’ hanno stimolato gli studiosi alla ricerca di un significato ‘minimo’, che fungesse da comune denominatore per tutti i rapporti proprietari. La rappresentazione più significativa della proprietà cui è approdato questo indirizzo si può individuare nelle metafore ‘bundle of rights’ e ‘bundle of sticks’, mediante le quali la property viene descritta come somma di diritti, obblighi, oneri e facoltà – diversamente modulabili in ragione della maggiore o minore intensità dei poteri dell’owner sul bene – e non invece come sintesi degli stessi (rappresentazione, quest’ultima, adeguata invece al concetto giuridico di proprietà di Civil Law). Un altro importante flusso di pensiero, che ha coinvolto in prevalenza filosofi, politici ed economisti, è quello riconducibile alle teorie liberalista, libertarista, proprietarista, neoproprietarista. Il neoproprietarismo (radicalmente contestato, e contrastato con proposte di sapore utopico, da parte di Van Parijs e Piketty) consiste in una variante del proprietarismo legato al libertarismo individualista classico. Sviluppatosi a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il neoproprietarismo segna il ritorno all'idea di una proprietà libera e assoluta, che ora ha ad oggetto non più le terre, ma altri beni, tra cui in prevalenza l’industria. La proprietà viene intesa come frutto di lavoro, impegno, ingegno e capacità personali, dunque, in un’ottica meritocratica, essa si considera ‘giusta’ e meritevole di difesa assoluta. A differenza del proprietarismo classico, però, il neoproprietarismo si congiunge all’anarco-capitalismo, per il rifiuto opposto all'intervento dello Stato nella protezione della proprietà individuale. Da quest’ultimo punto di vista, possiamo ritenere che l'impostazione del diritto europeo si discosti dalla visuale neoproprietarista, nel momento in cui investe gli Stati membri della funzione di tutelare la proprietà privata, secondo le logiche del proprietarismo classico. Per quanto le critiche rivolte negli ultimi anni alle concezioni proprietariste e neoproprietariste siano state minuziose e ben argomentate, le alternative proposte risultano in larga parte utopistiche, nella misura in cui mostrano di disconoscere l'innatismo del concetto di proprietà nell'essere umano, così come dimostrato dal cognitivismo. D’altra parte, la storia ci insegna che una proprietà del tutto assoluta, illimitata e priva di una qualche ‘funzione sociale’ (quella stigmatizzata dagli avversari del proprietarismo e neoproprietarismo) non è mai realmente esistita. Tanto risulta dalle fonti antiche concernenti: le distanze da osservare tra campi ed edifici, le limitazioni derivanti dai rapporti di vicinato, gli oneri gravanti sui proprietari frontisti in ordine alla riparazione delle pubbliche vie, gli obblighi di riparare o di consentire la riparazione di fognature site in luoghi privati, l’ablazione della proprietà per pubblica utilità, i limiti e gli obblighi imposti ai proprietari di immobili urbani per la preservazione del decus urbium, l’imposta fondiaria. La dominicalità romana, pertanto, è stata sempre temperata da una serie di limiti e di vincoli. Per altro verso, l’immagine di una proprietà piena, illimitata ed esclusiva non è una invenzione della dottrina settecentesca e delle successive correnti proprietariste. Le fonti romane non mancano di ricordare i tempi in cui i poteri proprietari del pater erano modellati sulla sovranità regia, in cui i confini della proprietà privata erano sacri e inviolabili, in cui la tutela processuale della proprietà veniva affermata mediante l’affermazione del «meum esse», in cui era possibile rifiutarsi di fare installare le condutture dell'acquedotto pubblico sulle proprie terre. Le definizioni della proprietà privata che leggiamo nei codici europei, nonché le espressioni utilizzate nel Draft Common Frame of Reference del 2009 e nel relativo commento, rispecchiano un’antica suggestione divenuta mito, ideale astratto, che comunque in Europa non rischia di concretizzarsi, grazie tanto alla giurisprudenza della Corte EDU, attenta a bilanciare le ragioni dei proprietari con l'interesse generale, tanto alle fitte legislazioni nazionali che già limitano in modo consistente gli abusi e gli usi antisociali della proprietà privata, in vista delle esigenze collettive e nel rispetto dei valori costituzionali.
2023
9791221102581
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11386/4858642
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